Sangue italiano e sguardo francese, l’alfiere di Yannick Alléno nelle Langhe ha messo nel mirino il secondo macaron e si prepara a lanciare un nuovo menu sempre più ancorato al territorio. Intervista a Francesco Marchese, il giovane chef stellato di FRE.
L'intervista
Veneto di nascita e langarolo d’adozione. Classe 1990, il suo sorriso è coinvolgente e deciso; la determinazione è sempre stata una sua caratteristica, da quando lascia la sua terra per andare là dove l’alta gastronomia è nata, viaggiando tra Lione, l’Alta Savoia e Parigi, dove giovanissimo entra a far parte della brigata del tristellato Yannick Alléno al Pavillon Ledoyen, che non solo lo accoglie, ma gli dà piena fiducia quando decide di ritornare in patria, consegnandogli le chiavi del primo ristorante in Italia del gruppo Alléno: il FRE, all’interno del Rèva Resort a Monforte d’Alba (CN).Sangue italiano e sguardo francese, questa la formula che nel 2020 porta Francesco alla sua prima Stella Michelin, senza perdere l’ambizione, che è la base per costruire una buona cucina e una brigata fedele al progetto. Cosa gli riserverà il futuro?
Lasciata la pausa invernale alle spalle, come sarà la ripartenza?
Riapriremo in sordina, visto che siamo in fase di restyling degli spazi. Non adotteremo subito il nuovo menu, ma continueremo con quello che ha chiuso la stagione precedente. Da aprile valorizzeremo i menu degustazione e aggiungeremo un percorso più completo da dieci assaggi. Vogliamo raccontare in modo più esaustivo il lavoro che facciamo in cucina, quello dei produttori di zona, e dare più spazio alle tradizioni e alla territorialità. Materia prima piemontese e tecnica francese.
Da cosa è dettato questo cambiamento?
Volevamo fare uno step ulteriore rispetto al lavoro degli ultimi tre anni, quindi spazi nuovi in termini di interni e piatti nuovi in termini di cucina.
Avete nel mirino qualche obiettivo specifico?
Bisogna sempre guardare avanti, non abbiamo mai nascosto di puntare a riconoscimenti ancora più alti. La seconda Stella Michelin è certamente tra questi.
Al FRE si è sempre respirata tanta aria francese. Merito di Yannick Alléno o della sua propensione?
Quest'anno lavoreremo ancora più a stretto contatto con Yannick, sono già andato a Parigi parecchie volte, e ci sono in programma ancora tantissime visite, per lavorare il più possibile fianco a fianco con lo chef e velocizzare i cambiamenti. Ogni volta che vado al Pavillon Ledoyen, trovo una maison in continua evoluzione, abituata a lavorare a ritmi diversi dai nostri: è un ambiente super stimolante che mi permette di tornare a casa con un bagaglio di informazioni e input che vanno assimilati e rielaborati, e da cui prendono poi forma i piatti del FRE.
Ha ancora "fame" di crescita. Vero?
Quella non ci è mai mancata. Dopo anni di lavoro si arriva a un punto in cui bisogna mettersi alla prova ancora di più, bisogna essere consapevoli che non si finisce mai di imparare, ma allo stesso tempo non bisogna dimenticare che l'unico vero obiettivo è avere in sala clienti contenti.
Francia: odio e amore?
Nel nostro mestiere la Francia è un punto cardine. Nelle Langhe è pieno di chef che hanno transitato per le cucine dei più grandi maestri d'Oltralpe; inutile negare che sono più avanti dal punto di vista gastronomico, bisogna essere onesti, guardarli con ammirazione e imparare dagli insegnamenti.
In cosa la Francia è più avanti?
Tanto per fare qualche esempio: i prodotti hanno uno standard più alto, non nel senso che la materia prima sia più buona, intendiamoci, ma nel senso che viene già fatto un lavoro a monte indirizzato verso l'approccio del fine dining; in cucina c'è una struttura gerarchica più efficace; il metodo di lavoro è più performante e non sempre in Italia si riesce a replicare.
Ha fatto tanto discutere la puntata di Report del 16 gennaio sulla sostenibilità economica delle cucine stellate. Cosa ne pensa?
I ristoranti fine dining appartengono ad una nicchia, eppure ha comunque senso parlare di sostenibilità. Appurato che nella ristorazione esiste una gerarchia dettata anche dalle guide, è un dovere morale, per chi sta nelle posizioni con più visibilità, prendersi questo impegno e dare il buon esempio. Per anni si è praticato lo spreco e l'esuberanza come un mantra, oggi la tendenza è diametralmente opposta, a partire da tanti clienti che si dimostrano realmente sensibili all'argomento. Il rischio, coltivando un mondo senza rispetto per la materia prima, per il capitale umano, per gli orari di lavoro, è di avere un futuro senza l'alta ristorazione. Fa parte delle skill di un cuoco ormai, l’essere sostenibile.
Una volta, non molti anni fa, era prassi comune non pagare gli stagisti.
Noi diamo una giusta retribuzione in base alle capacità, alla voglia di fare e alla propensione alla crescita. C'è anche da dire che il costo della vita è cambiato rispetto a qualche anno fa; quindi, a mio avviso un trattamento come quello riservato agli stagisti fino a qualche anno fa, è oggi impraticabile, oltre che inaccettabile.
Tecnica e tecnologia. In che percentuale le troviamo nella sua cucina?
Non abbiamo tecnologie particolari. Facciamo uso delle tecniche classiche, che sono sempre a servizio del gusto, non cerchiamo l'esuberanza ma l'armonia dei gusti e delle consistenze.
Che rapporto ha con la sala?
Se parliamo di uscire in sala dopo o durante il servizio, penso sia necessario mettere la faccia in quello che facciamo; oltretutto l’uscita in sala spesso coincide con la rifinitura del piatto, con una lavorazione o una salsa, il che aggiunge un quid al servizio stesso. Non sono a mio agio ad uscire dalla cucina, lo ammetto, ma ricevere feedback e commenti è importantissimo. È un aspetto del mio carattere che sto cercando di smussare poco alla volta.
Una cattiva materia prima può essere ingentilita da una buona tecnica?
Assolutamente no, senza compromessi. Il punto di partenza di una ricetta è sempre la materia prima. Se non c'è quella non ci sono le fondamenta per costruire un buon piatto.
Se metto nella stessa frase: cucina, ricerca e rivoluzione. Cosa esce?
La ricerca per me ha come fine unico il gusto; significa sperimentare, testare tecniche e abbinamenti. Se dici rivoluzione, rispondo che sono pochi quelli che la fanno. Per essere rivoluzionari bisogna fare qualcosa di evoluto universalmente condiviso. Se penso a un nome mi viene in mente René Redzepi del Noma di Copenaghen. Ogni sua nuova apertura è attesa come l'evento gastronomico dell'anno.
Parliamo di contaminazioni.
Vuol dire dar seguito e corpo alle influenze che ognuno di noi ha ricevuto nelle varie esperienze in giro per il mondo. Sto navigando alla scoperta del Piemonte, una terra che mi sta dando tantissimo. Mi concentro su quello.
Un piatto che la rappresenta più di altri?
Il San Pietro con salsa al vin jaune (tipica francese), aglio orsino e morchelle (una tipologia di fungo) ripieni. Ottimi prodotti, salsa francese, cotture ben eseguite. Nulla di più.
Tornando al capitale umano, ha difficoltà a reperire personale? E come si valorizza?
È dallo scorso anno che abbiamo la stessa brigata. In questo siamo stati molto fortunati. È anche vero che venivamo da anni in cui non si riusciva a costruire una squadra solida. Ci siamo impegnati in questo ultimo periodo per rendere le vite di tutti i ragazzi più sostenibili in termini di orari e di ritmi. È necessario poi stimolarli, responsabilizzarli, e renderli davvero parte di qualcosa.
Le Langhe sono un territorio dove quasi ogni apertura è un successo. Cos'ha di magico?
Sono nelle Langhe dal 2020, subito dopo il primo lock down. Non c'è magia dietro tanto successo, c'è solo tanta tradizione che viene fortemente valorizzata, e questo contribuisce a costruire un'identità fortissima e riconoscibile. C'è poi una sinergia tra cucina e grandi cantine che fa da volano per il turismo enogastronomico, il tutto coadiuvato da grandi menti imprenditoriali e grandi chef. Una formula perfetta, naturalmente completata da un paesaggio incantevole.
Chef, cosa vuole fare da grande?
Da grande voglio continuare a fare quello che sto facendo da giovane: il cuoco, tra i cuochi.