A Tokyo, nell’elegante quartiere di Ginza, c’è un ristorante di cucina tradizionale che impiega solo donne sulla ventina. Lo guida Atsumi Saito, che organizza per le sue ragazze lezioni di poesia e di coro. “Con loro è più facile insegnare ai principianti; le relazioni non sono gerarchiche, ma amicali”.
La notizia
Il Giappone non è la patria del femminismo: la cultura patriarcale è radicata anche nella ristorazione, dove tutti o quasi i sushi chef, per fare un esempio, portano i pantaloni. Fa eccezione in Ginza Namiki-Dori, via dello shopping di lusso a Tokyo, Tsuru to Kame, ristorante di cucina Kappo, ovvero diretta e informale, a metà strada fra kaiseki e izakaya, l’osteria giapponese. Le sue brigate sono infatti da sempre composte di sole donne, un sogno diventato realtà per il titolare, già alla testa di numerose strutture.
Oggi a guidare la cucina è la seconda generazione di “shef”, nella figura di Atsumi Saito. Gli ambienti sono quelli tradizionali dei locali giapponesi, con il soffitto in listarelle di legno e le pareti rivestite della classica copertura in argilla. Qui un lungo bancone a ferro di cavallo consente di assistere alle performance delle cuoche, ritagliate dalla finestra della cucina a vista.
Saito, figlia d’arte di uno chef del medesimo gruppo, ha prestato servizio nel ristorante fin dalla sua apertura e ne è stata nominata chef nel 2022. Gli esordi non sono stati facili: maggiore di cinque fratelli, sognava da sempre di cucinare col padre, ma si è ben presto scontrata con il maschilismo del settore, finendo relegata a compiere le mansioni più umili e meccaniche. “Probabilmente i miei superiori consideravano troppo emotivo il personale femminile e non sapevano come gestirlo”, ha dichiarato a Kyoko Nakayama, che racconta la sua ascesa su guide.michelin.com. “Una cosa che ho notato guidando una squadra composta di sole donne, è che è più facile prendersi cura dei collaboratori giovani. Le relazioni tendono a diventare simili a amicizie, anziché strutturarsi secondo le rigide gerarchie delle brigate a maggioranza maschile”.
L’offerta comprende due menu omakase, ovvero carta bianca, a base di ingredienti stagionali. Prendono le mosse dagli appetizer (hassun), serviti in tavola con un foglio di carta tradizionale (washi) che riporta una composizione irripetibile, creata da una collaboratrice e vergata col pennello da Saito, per presentare la proposta e alimentare la conversazione. Vi compaiono spesso ingredienti feticcio come i pesci ghiaccio o i calamari lucciola, al fine di enfatizzare la stagionalità e sintonizzare l’ospite con la natura.
Per rafforzare lo spirito di squadra e propiziare la condivisione delle conoscenze, Saito organizza lezioni dopo la mise-en-place del mattino, che possono riguardare la cerimonia del tè, la calligrafia, la composizione di haiku o dei più estesi tanka, la lettura di libri di storia, il canto in coro o la lingua inglese. Si tratta in tutti i casi di rappresentare la cucina giapponese come parte della cultura e del patrimonio artistico nazionale, per favorirne la trasmissione alle generazioni future. “Vogliamo infondere il senso delle 24 micro-stagioni, come parte delle nostre tradizioni. Tutte le collaboratrici sono sulla ventina, in ogni caso under 30, e coltivano il sogno di aprire un ristorante proprio”.