Un ex mulino/frantoio in una frazione umbra che ha più storia che abitanti: è la sorprendente sede del fine dining guidato da Giulio Gigli, giovane talento formatosi nelle migliori insegne europee per poi tornare a casa.
LA NUOVA CUCINA UMBRA È UN "NUOVO CLASSICO"
A tre anni dall’apertura non sei più una novità, e (forse) non puoi ancora essere un classico. Capodacqua di Foligno ha più storia che abitanti, e attorno solo boschi, montagne e torrenti; Giulio Gigli un cv che tutti conoscono: Il Pagliaccio a Roma, con Anthony Genovese; Le 1947 à Cheval Blanc, con Yannick Alléno; da Benu, tre stelle Michelin di San Francisco; Disfrutar a Barcellona, oggi tre stelle e fresco vincitore della World 50Best Restaurant.
Quattro anni fa in pochi gli avrebbero pronosticato un futuro in Umbria, eppure nell’agosto 2021, insieme alla compagna Lucile Kopczynski, inaugura Une, in quello che in passato (‘400 e poi ‘600) fu mulino e frantoio, cattedrale laica in mezzo ad un crocevia di acque commercio e uomini.
Fin dall’inizio, il manifesto della casa recita “Il progetto gastronomico si snoda attraverso tre chiavi di lettura: la sostenibilità, che passa dal riutilizzo degli scarti in cucina e dell’orto , l’attenzione alla stagionalità degli ingredienti e le relazioni con produttori, clienti e gruppo cucina che sono al centro della cucina.”
GLI AMBIENTI
E infatti non appena si varcano le soglie dell’ingresso ci si accorge che l’ex mulino/frantoio è ancora una “bottega” di cucina e ospitalità nel senso più nobile del termine, che ti accoglie con la mappa dell’orto affissa sul muro. Superato il primo ambiente ecco pareti di mattone, pavimenti in cotto al grezzo, tavoli in legno con mise en place minimale. Il primo approdo in sala è quello del bancone di lavoro, punto di raccordo tra sala e cucina.
Le sale sono tre: la prima e principale è dominata da un austero soppalco in legno; la seconda sala è subito a sinistra di quella principale, la terza a destra, più ridotta, ospita un’anteprima della cantina e un piccolo tavolo. Forse l’unica differenza che si può notare rispetto agli inizi è nell’atmosfera: aleggia una dose maggiore di consapevolezza, armonia e serenità, sprigionate da un team di sala tutto al femminile, sempre sorridente e accorto, guidato egregiamente da Gaia Landrini (maitrè) e Federica Capodicasa (sommeliere).
La carta vini ha preso peso, arrivando a superare le 270 etichette, inclusi calibri di livello. Ricarichi onesti. Anche il menu ha preso quota: la prima degustazione “Acquedotto” conta 6 passaggi a 75€; la seconda degustazione “Relazioni” conta 8 passaggi a 95€; c’è la possibilità di assaggiare il “Menu Completo”, per un totale di 10 portate a 125€.
Rimane, allegata alla carta, una seconda carta dedicata al “Diario di Campo”, progetto che indaga l’habitat botanico di Une, includendo giardino, campo arborato, orto. Non manca un lungo elenco di tutti i fornitori e produttori locali con cui lavora la casa, con relativa distanza da Capodacqua: chilometri sinceri. Nella carta principale anche una sorpresa: una selezione di piatti che lo chef propone per i bambini che siedono ai tavoli di UNE.
I PIATTI
Inizio in due passaggi: prima un aperitivo, poi un antipasto all’italiana. Per l’aperitivo viene servito “Bonbon di fegato di piccione con lardo di maiale e pepe rosa”, “Croccante di tapioca soffiato allo zafferano di Capodacqua, tartare di manzo e kimchi di sedano, maionese al midollo”, “Burro di pomodoro e latte di buffala” e infine una nuova versione del signature della casa “Tigella fritta di blu di capra, pickles di noci e praliné di noci”.
Il bonbon è una mina a esplosione controllata che permette di riconoscere in modo nitido tutti gli ingredienti fino alla chiusura in cui domina il pepe rosa; la tartare un boccone in cui kimchi e maionese lasciano il palcoscenico alla carne al naturale; la tigella una dimostrazione di come sia possibile portare nel ventunesimo secolo qualcosa di eterno.
Si procede con ritmo verso l’antipasto all’italiana: “Lumache spadellate con fave fresche e spuma di finocchietto”, “Caprese scomposta con spuma di mozzarella di bufala, insalatina di erbe selvatiche condita con olio al basilico, pralinè di noci e gelatina di acqua di mozzarella e pomodoro”, “Terrina di stinco di maiale con limone e capperi, mousse di piselli freschi e misticanza dell’orto”, “Takoyaki di funghi con maionese all’aglio orsino e pelle di pollo croccante”.
L’aperitivo e l’antipasto mettono in luce quello che ci sembrerà essere il canone della cucina: tecnica e creatività sì, ma come mezzo e non come fine. Qui si cucina per far felice i palati di chi siede a tavola. Il gusto di ogni portata è intellegibile e comprensibile anche ai meno esperti. Risulterà difficile indicare un piatto per cui la porzione da degustazione non ci sia quasi stata stretta. Il gioco dello chef sembra partire da alcune regole (materie prime locali, spesso dimenticate; scarto al minimo tendente allo zero; ricette e sapori popolari, presenti nella memoria gustativa di tutti gli avventori) e a quelle regole applicare tutta la tecnica e la creatività apprese in carriera. Ogni passaggio stupisce per l’equilibrio gustativo, nella sua rotondità al palato, nel rifiuto dell’eccesso, nel controllo dei sapori più forti e nell’esecuzione contemporanea (ldigeribilissima) di portate classiche.
Sono così delicatissima terrina, la polpetta giapponese, le lumache. Sapori che appartengono a tanti, per questo riconoscibili e apprezzabili. Nota di fondo, sempre presente, quella vegetale, mai avulsa dal contesto, che a volte porta i piatti nei territori dell’amaro altre volte dona freschezza ad un piatto che ne abbisogna. Il canone della “Nuova Cucina Umbra” viene ripetuto anche nei primi. Il primo passaggio è “Raviolo ripieno di baccalà mantecato, pil pil e succo di fagiolini”. Quello che poteva sembrare un tradimento del dogma (il baccalà) ci viene descritto invece come un ingrediente storicamente molto usato in zona. Il piatto è un eccellente piatto di pasta fresca, con sfoglia al millimetro, cottura a prova di nonna e ripieno delicatissimo.
Un velo di lardo sopra contribuisce a dare nerbo, i fagiolini alleggeriscono il totale con freschezza e croccantezza. Di nuovo, l’esperienza internazionale dello chef diventa bussola per orientarsi nei dintorni di Capodacqua e della cucina di territorio. Secondo passaggio con “Cavatelli paglia e fieno, orecchie di maiale, spuma di lenticchie di Colfiorito e gamberi di fiume”. Il cavatello è un formato di pasta difficile tra incontrare a certi livelli, ancora di più in versione paglia e fieno. È un piatto rotondo, privo di estremi, di nuovo molto equilibrato senza mai sconfinare nel facile. La spuma di lenticchie contribuisce ad aiutare la masticazione del cavatello, le orecchie di maiale aggiungono una nota delicata di proteina animale, l’aggiunta di cedro protegge la bocca dall’eccessiva sensazione di grassezza.
I secondi avviano una sorta di masterclass sulla cottura delle proteine e sugli impiattamenti minimali.La “Trota fario arrotolata in una foglia di aglio orsino, aglio orsino, aceti di fiori e mandorle stufate” è il piatto della serata: se la cottura perfetta della trota non stupisce, a stupirci è il suo diventare rapidamente una sorta di coprotagonista rispetto al gioco tra sapore pungente e aromatico dell’aglio orsino e alla nota amaricante delle mandorle stufate.
Il “Piccione di Capodacqua, agretti del nostro orto, gel di mela verde, vinagrette di colatura di alici, fondo di cottura del piccione con aggiunta di prosciutto di Norcia” è l’ennesima declinazione del piccione della casa. Della casa perché già signature, della casa perché i piccioni li alleva il vicino. Di nuovo una carne cotta alla perfezione, elevata da un fondo di cottura che arriva a sfruttare (con maestria) anche un lieve rancido per amplificare la forza della carne, contrastata poi dall’acidità di agretti, mela verde e vinagrette.
Difficile per la “Bavetta di manzo, corteccia, germogli di pino e kimchi di asparagi” competere di fronte ai due secondi precedenti, ma gli va riconosciuto l’onore delle armi. Assaggiata da sola, la carne è un passo a due appassionante tra la succulenza della bavetta e l’affumicato della brace; insieme a pino e kimchi si apre verso una piccantezza controllata che meriterebbe il bis.
Nota a margine per il predessert: il ”Carciofo sciroppato, toffee al carciofo, riduzione al Cynar e granita di ponciro” è un esercizio di creatività a briglia sciolta che meriterebbe per la sola toffee al carciofo. La chiusura è tutta per un “Parfait al miele, gelato di cera d'api e pappa reale”, che batte la “Zuppa Inglese di Une”. Entrambi di ottima fattura, ma il primo è di una golosità impareggiabile.
La piccola pasticceria presenta “Sfera essiccata di fragola, pralinè di sesamo nero e yogurt”, “Sfera di cioccolato e arachidi”, “Marshmallow al mandarino arrostito sopra cardamomo, aceto e crumble di cioccolato bianco al sambuco” e di certo è un bel modo per salutare i commensali. Saluto che a tutti i tavoli viene poi portato personalmente dallo chef. Ci racconta Gigli: “È naturale che gli appassionati di fine dining siano sempre alla ricerca di una novità, è quello che faccio anche io. Ma io qui devo pensare innanzitutto agli amici del territorio, far sì che Une diventi per loro un luogo in cui tornare spesso. I risultati raggiunti ci hanno fatto conoscere nuovi ospiti provenienti anche da lontano, ma per noi il piacere più grande è vedere come abbiamo coltivato una comunità locale di clienti”.
Ecco che tornano al loro posto alcuni elementi: i piatti pensati per i bambini; un ritmo di servizio che consente 10 passaggi in 2 ore e poco più; un menu che mette talento e tecnica al servizio del commensale, chiamato a godersi una cucina contemporanea, sostenibile, creativa, ma soprattutto comprensibile a tutti; un approccio informale capace di far sentire chiunque a proprio agio; una brigata capace di creare in nemmeno tre anni più di 200 piatti, perché da un lato “alcuni ingredienti durano pochissimo”, dall’altro lo zoccolo duro degli affezionati merita di scoprire sempre nuovi piatti.
Ma alla fine, cos’è un classico se non un modello che funziona?
Un modello sostenibile non solo in cucina e per l’ambiente, ma pure nei bilanci, verso i collaboratori, i fornitori, l’imprenditore e naturalmente verso i clienti.
CONTATTI
Ristorante UNE
Via Fiorenzuola, 37, 06034 Capodacqua PG
t.+39 334 8851903
Orari
Giovedì: 20.00-21.30
Venerdì: 20.00-21.30
Sabato: 13.00-14.00 | 20.00-21.30
Domenica: 13.00-14.00 | 20.00-21.30
Lunedì: 13.00-14.00 | 20.00-21.30
Chiuso martedì e mercoledì