Il tasting di Glass Hostaria è un almanacco di viaggio dalla grafia sottile, ma intimamente familiare; non un Codice da Vinci, ma un Bignami delle cucine oltreconfine. Ecco come Cristina Bowerman ha reso la modernità una forma di condivisione.
Foto (salvo dove diversamente indicato): crediti Struttura Films
2006, la solita Roma sonnecchiante e una piccola case history in quel di Trastevere. Poco meno di 20 anni fa, tra il bottegaio di quartiere e la piazza gremita della movida notturna, prendeva piede un'insegna destinata a cambiare il passo del viavai rionale, ampliando le vedute dell'Urbe turistica-o meglio, la percezione degli stessi locals. Glass Hostaria era l'epicentro di un mutamento, il turbine in seno all'abitudine; quasi una breccia di futuro nell'immobilismo del tempo. Eppure, la sua scossa gentile diede slancio al posto più impensato per veder crescere un gourmet.
Cristina Bowerman vi entrò col bagaglio multiplo di una che nella vita non ha solo spadellato -anzi. Studi in Giurisprudenza, gavetta intensiva da graphic designer e poi sì, tanta ristorazione, però in giro per gli States, partendo da una coffee house e portando a casa un altro prezioso diploma, stavolta in Culinary Arts.
Pugliese all'anagrafe e passaporto alla mano, Cristina migra da Austin a San Francisco, piantando infine bandiera nella Capitale. Ed è allora che, dopo un passaggio breve ma intenso dai fratelli Troiani, ridisegna la mappa gastrofisica trasteverina -proprio lì, fra quei vicoli impregnati di inossidabile veracità (o voracità, che dir si voglia).
Dunque, presto fioccano prenotazioni da parte di una platea decisamente patchwork: oltre al palato noto, c'è il romano allergico al tasting e convertito nello spazio di una sera; c'è il buongustaio bramante in viaggio, c'è la famiglia che si concede una cena pro. Cos'è Glass oggi? Non una tavola patinata, né un'ambizione adagiata sul piedistallo di forchette e macaron. È un login nell'area protetta dell'alta cucina con chiave di lettura all inclusive. La conferma -fra tante acrobazie creative ripiegate su se stesse- che modernizzare non vuol dire allontanare: la modernità è di chi sa condividere.
Il ristorante
"I miei li conosco bene: c'è vita oltre la brigata. Talvolta dimentichiamo che un ristorante è fatto di persone. Invece dovremmo tenere a mente che l'alchimia del pasto sta tutta lì, nella sinergia umana". Cristina il discorso lo inizia così, pigiando decisa il tasto collettivo; uno switch dietro le quinte che illumina i volti anziché i ruoli. Ma il messaggio, alla fine, ti arriva dritto in sala, dove l'energia non si traduce in tensione, bensì in uno slancio spontaneo di trasporto verso l'altro.
Può accadere scostando il velo di timidezza del cliente solitario seduto nel suo angolo appartato; ricordando, a distanza di anni, il colpo di fulmine per quell'etichetta out of order che torna in tavola come un caro vecchio amico incontrato all'improvviso; captando, infine, i ritmi degli assaggi e delle pause, perché la fretta qui resta fuori dalla porta: conta solo la libera scansione del boccone.
"Credo nel link profondo fra chi mangia e chi cucina. Abbiamo sempre tentato di evitare la sindrome del cibo sconosciuto -quella sorta di spaesamento surreale che ti assale di fronte a un piatto incatalogabile, rendendolo ostico sin dal principio. Sai la frase che ti rimbalza in mente se sei stato bene in un posto? 'Ho fatto un'esperienza'. Bene, secondo me esprime perfettamente la sensazione di meravigliarsi senza spaventarsi. In sintesi, è la scintilla di una connessione istantanea col cuoco; è un tappetino d'atterraggio che ammortizza il salto nel nuovo, affinché non sia un salto nel vuoto".
Per dire, nel 2006 mangiare fine dining "con le mani" rasentava l'eresia. Invece, Cristina risalì la corrente dei trend ideando un finto hamburger che attivava la sfera tattile latente: "Era in realtà un panino alla liquirizia, scaloppa di foie gras e maionese al passito, con fake chips di riso e ketchup di mango. Pareva strano in un locale simile, e andava proposto proprio per questo". Gestualità col medesimo valore del sapore, in barba ai cliché. Ancora: il mito olimpico della portata assemblata, scuola nordeuropea. "Perché farne una religione? Il bello del nostro patrimonio alimentare è la simultaneità: l'atto di realizzare e servire pietanze squisitamente espresse. Quindi, eccetto due secondi di carne a cottura frazionata (il maiale o, talvolta, l'agnello, ndr), skippo il sottovuoto e lavoro sul momento. Certo, serve sincronia assoluta. Col risultato che non stai montando il piatto, lo stai preparando".
D'altra parte, il gusto dell'esplorazione resta al centro, per un abbraccio intercontinentale che stringe i paesi -e le cartine mute. Oggi al pari di ieri, Cristina sul menu firma un doppio patto di coerenza: radici presenti all'appello e valigie pronte al decollo. Così, il suo percorso al buio è un almanacco di viaggio dalla grafia sottile, ma intimamente familiare; non un Codice da Vinci, ma un Bignami delle cucine oltreconfine.
I piatti
La jam session culturale parte già dall'attacco, dove spesso si gioca il match tra un arsenale di colpi precisi e una fila indiana di assaggini inerti. Buona la prima; da Glass i diverti-bocca centrano il bersaglio grazie a una strategia inconsueta: nessuno ha l'approccio esterofilo dello snack appariscente fine a se stesso, giacché la chef lascia sempre aperto uno spiraglio di italianità nell'aspetto o nel contesto.
Così, al posto dei macaron e delle tartellette formato tascabile che infiocchettano il consueto cadeaux di benvenuto, arriva un maritozzino infarcito di crema pasticcera salata, polvere di olive e foglia di cappero, in pieno mediterranean style; poi sboccia sullo sfondo dell'happy hour la cialdina di Fiore di loto, cibo di strada thailandese tipicamente dolce che la chef fa suo con un topping di semi di sesamo e crema di Parmigiano Reggiano, instradando subito i sensi all'umami. In pochi minuti si passa dalla liquidità inattesa della sfera di burro nocciola, pronta a inondare la mandibola con un quid alcolico sempre diverso (nel nostro caso, Mai Tai), alla densità materica di una panissa ligure che attiva la masticazione col suo rinforzo crock di noccioline tostate. Ripulisce le guance un cubetto d'ananas reso incisivo dalla spinta detergente dell'aceto, e allora si è davvero sul pezzo, ready to start.
A rompere il ghiaccio, un gelato al pesce -pardon, sorbetto- completamente privo di uova e di stabilizzanti, che sintetizza in un bolo delicatamente fishy la nobiltà della capasanta: "Dentro c'è il suo corallo". E d'improvviso ti ritrovi in mare aperto, poiché il resto del mollusco naviga in acque fredde con gambero e tartare di granchio reale. Alla base riluce, infatti, un brodo corroborante di mele e sidro, "che arricchisco con limone, lime e infusione al finocchietto per stemperare il frutto con la giusta carica di asprezza". Tre habitat riuniti in un cucchiaio: costa, suolo, flutti.
Questione di tatto, scrivevamo nell'intro: "Credo sia fisiologico, di tanto in tanto, ignorare le posate, come quando assaggi un rigatone in cottura e recuperi un aspetto sensoriale dimenticato", spiega Cristina. La Tortilla calda di mais bianco, pastrami di cuore di vitella, lattuga e crème fraîche giunge a dimostrarlo. Semplice: unisci le estremità e te la porti alle labbra stile finger. Ma a colpire è il gemellaggio Messico-Italia. "Nel dischetto, zero strutto; ho alleggerito la ricetta mantenendo il crumbly del taco steso sottile. All'interno, un pastrami di cuore di vitella per la svolta laziale, tenuto una settimana in salamoia e ultimato su piastra, preservando la morbidezza delle carni già intenerite dall'osmosi". Lo completa una salsa alla 'nduja a rivaleggiare col kimchi di cavolo fermentato; piccantino versus acidità, lo street food estero che si scopre nostrano.
Parentesi lievitati, l'unico vero rischio è quello di lasciarsi distrarre dalla Pagnottina di semi integrali e grano arso, da annegare ad libitum in una voluttuosa spuma di olio extravergine d'oliva e sale nero. Senonché i primi avanzano veloci nella scaletta serale.
Completamente marino appare lo Spaghetto alla chitarra con polvere di alghe nell'impasto e lingua di riccio di mare a guarnire. Irrompe in tavola ostentando tinte fredde squillanti, complice l'aggiunta tattica del prezzemolo per ravvivare il color smeraldo. Sul fondo, "un Beurre Blanc francesissimo, dove magari non te l'aspetti". La leva dello stupore, però, scatta solo dopo un tris di forchettate, ciascuna a suo modo diversa dalla precedente. Un'altra massima del menu e, in generale, della Glass-filosofia: "Il dinamismo sazia la fame di curiosità". Dunque, contro la new wave della mantecatura spinta, Cristina struttura la pasta "in verticale", sovrapponendo ingredienti distinti da associare a sentimento. Sei tu a dosarli, e a ogni combinazione cogli il nuovo. “Volevo un risultato cangiante, che all'occhio trasmettesse freschezza e all'assaggio una variazione interattiva". Merito pure di un prodotto invisibile: il midollo incorporato al pesto di alghe per rifinire la trama avvolgente, spalleggiando al contempo la lunghezza del riccio. Ed è un diving profondo nell'intensità di contrasti, "al punto che ci si beve tranquillamente un rosso". Per noi Cervaro della Sala Antinori 2022: sorso ricco fra il salino e il nutty, su consiglio dell'ottimo direttore di sala Riccardo Nocera.
Altro primo, altro mixage. Viene dalla Turchia l'ispirazione per i Raviolini aperti (manti) tradizionalmente ripieni di brasato di agnello. "Io li italianizzo rimpiazzando quest'ultimo con carne di pecora giovane, leggermente speziata grazie a un blend di curcuma e curry". Stesso discorso per l'involucro: l'"acqua e farina" del Vicino Oriente diventa pasta all'uovo nella Città Eterna. Di più: "Per rendere la superficie croccante e giusto un po' brunita, applico la tecnica dei gyoza rosolati in padella su un solo lato". E tutto d'un tratto si sconfina in Asia. Regola aurea? Perfezionare in sottrazione. "Cottura al vapore, brodo rigorosamente vegetale per schivare l'affollamento aromatico e, sotto le barchette farcite, una crema di yogurt con tahina cui incorporo una punta di miso". È il nostro highlight della cena, potente e lieve, noto e sconosciuto: un "sincretismo da mangiare" che nutre (ed apre) la mente.
La sfilza di new entry culmina nella Quaglia ripiena, fichi secchi al Marsala, pistacchi di Bronte e girandola di patate blu. Il volatile scomposto e ricomposto in un total look sontuoso, dalla carne infarcita di interiora e frutta secca (sia tritata, a mo' di pesto, che intera, per la sospensione di texture) alla coscia bbq, fino al fondo delle carcasse, addensato in una demi-glace all'umeboshi; l'aceto di prugne fermentate giapponesi che chiama a raccolta sapido e agro. A lato, un roll di patate finissime, quasi fossero veli di un turbante; in bocca il tubero caramellizzato dal timbro dolce, mentre una foglia di bieta resetta le papille at the end.
A volte ritornano; stavolta sono in due. La chef te li impiatta entrambi a fine corsa, e non c'è alcun taglio del nastro a recidere sali e zuccheri; piuttosto, un doppio nodo di ricordi. Il revival inizia con Mais, frutto della passione e dulce de leche. Cristina plasma una pannocchietta mignon che il cereale lo richiama giusto nella forma, mentre la sostanza muta secondo stagione e fantasia, a ingannare la percezione istintiva. Contiene infatti passion fruit, per uno stacchetto piacevolmente tropical cui si affianca il "mais autentico", nelle sembianze di un gelato al popcorn e dei suoi medesimi chicchi dorati. Memorie di Texas e, insieme, di casa: "Me li faceva mia madre".
Poi loro, i Ravioli al Parmigiano Reggiano liquido, 100% passepartout. Funzionano persino al posto del dessert, col Big Bang caseario che al morso buca letteralmente la sfoglia eterea in cui era rimasto intrappolato. Giochi di prestigio, sì, e una vera case history in quel di Trastevere.
Contatti
Glass Hostaria
Vicolo del Cinque, 58, 00153 Roma RM
Telefono: 06 5833 5903