La saga della famiglia Settepani, che a New York divulga la cultura italiana della cucina e della pasticceria in tre locali, prosegue grazie alla seconda generazione di Seyoum, general manager, e Bilena, pastry chef innovativa e impegnata nel sociale.
La storia
Non era ancora nata, Bilena Settepani, quando i genitori Nino e Leah, il primo siciliano, la seconda etiope-eritrea, posarono la prima pietra di quella che oggi è un’istituzione italoamericana: la Settepani Bakery di Brooklyn, luogo di divulgazione dell’arte bianca nazionale. Nomen omen, si dirà. E di fatto non si sono più fermati: percorrendo per andare a lavoro una strada di Harlem, quando il quartiere era ancora sinonimo di degrado, se ne innamorarono al punto tale da decidere di avventurarsi. I palazzi erano belli e spaziosi, gli affitti a buon mercato. Eppure, si chiedeva Leah, dove andranno coloro che vi abitano, a prendere un caffè? Di fatto era il deserto, e non a caso.

Visto che più volte, da pioniera della riqualificazione, si è poi trovata una pistola puntata o una vetrina sfondata. Nino le chiedeva perché ostinarsi, quando già avevano successo altrove, e lei rispondeva profeticamente: “Perché qui è bellissimo e un giorno diverrà spettacolare. Tutto comincia dal caffè la mattina”. Oggi ce l’hanno fatta: il loro è un ristorante con tutti i crismi, la vetrina dei dolci e una piacevole atmosfera europea sul marciapiede, mentre intorno, grazie all’esempio e alle esortazioni, hanno aperto locali di ogni tipo.


La bakery e il ristorante esistono ancora: hanno rispettivamente 31 e 25 anni. Ma nel frattempo è arrivata lei, l’estrosa Bilena, nata 28 anni fa a Manhattan. Il nome in etiope indica la pupilla dell’occhio, oltre che una tribù di donne straordinariamente eleganti, ma i parenti italiani hanno voluto italianizzarlo con la classica “a” finale, per familiarizzare l’esotismo. Pastry chef, si è occupata anche di moda prima di rientrare in azienda durante la pandemia e perfezionarsi all’Institute of Culinary Education.

“Fin da piccola, ricordo di aver dato una mano, ogniqualvolta ci fosse bisogno. Mia mamma dice sempre di aver sposato mio padre per i dolci, che in Etiopia non esistono, tranne qualche lascito italiano come la millefoglie. E di fatto la nostra è una pasticceria tradizionale italiana, quindi adesso stiamo facendo le chiacchiere e gli sfinci di San Giuseppe, né mancano cannoli e biscotti".


"Siamo stati fra i primi a proporre il panettone artigianale a New York: all’inizio i miei lo compravano e lo rivendevano, poi i clienti hanno iniziato a chiederne uno nostro e mio padre si è messo d’impegno, sfornando panettoni e colombe artigianali. Per parte mia, mi sembrava giusto tentare di attrarre una clientela diversa, da quella in cerca di memorie italiane. Quindi ho voluto proporre nuovi gusti di panettone, uno al mese, destagionalizzando la produzione: adesso è il momento del red velvet, che è molto popolare presso la comunità afroamericana”.

Le innovazioni di Bilena non sono state premiate solo dalla clientela, ma anche da Iginio Massari, che l’anno scorso a Host l’ha consacrata fra le migliori pasticciere a livello internazionale. La base dei suoi dolci è sempre italiana, poi si tratta di giocare con il gusto, a 360 gradi. E sono prodotti che possono essere spediti in tutti gli Stati Uniti, laddove sarebbe arduo scovare un panettone artigianale, disponibili dallo scorso dicembre anche all’interno del Time Out Market nell’iconico quartiere di Dumbo, proprio sotto al Brooklyn Bridge.


L’occhio di Bilena, però, non ha scrutato a fondo solo nelle alveolature e nei feuilletage: al pari dei genitori, si è guardata bene tutt’intorno. “I miei hanno sempre cercato collaboratori del posto e hanno lavorato volentieri con le scuole, per radicarsi nelle comunità. Da tre mesi qua è arrivato il Refettorio di Massimo Bottura e ci siamo subito lasciati coinvolgere, partecipando attivamente al progetto. Quando c’è bisogno di qualcosa, diamo una mano, cucinando anche con altri chef".

"Due sere a settimana potrà passare chiunque e sentirsi a casa, ricevendo un pasto gratuito di tre portate, a prescindere dal proprio reddito, condizione, nazionalità: ce ne occuperemo una volta al mese, con entusiasmo. La chiesa in cui è ospitata la mensa, che usufruisce di una vasta cucina semiprofessionale, è proprio dietro l’angolo. E quando esco per portare a passeggio il cane, mi capita di sentire la gente che racconta tutto il bene che fa”. Ma il refettorio non finisce a tavola: l’idea è quella di reinserire le persone nella comunità, in ruoli socialmente attivi. “Mi è stato già chiesto di insegnare in qualche piccolo corso: potrebbe essere un modo per aiutare le persone a intraprendere un nuovo percorso di formazione, chissà”.
