Una decina di anni fuori dal settore ha consentito a Douglas Keane di ripensare la sua cucina e il funzionamento del ristorante, nel tentativo di correggere storture storiche con una maggiore attenzione verso la squadra.
L'opinione
Che la cucina high end stesse stretta a Douglas Keane, era evidente già nel 2012, quando decise improvvisamente di mettere fine al suo primo ristorante Cyrus, che deteneva due stelle Michelin. Erano stati sette anni di successi, racconta Forbes qui, pagati però con il burnout personale e della squadra, eccessivamente provata dall’ansia di prestazione a scapito della passione gastronomica pura.
Da quel momento Keane e il suo storico socio Nick Peyton hanno avviato una profonda riflessione, alimentata anche dall’emergenza pandemica, sulla possibile riforma del sistema di lavoro e dell’esperienza gastronomica, sia per gli operatori che per gli ospiti, sfociata nella riapertura di Cyrus, non più nella contea di Sonoma, ma a Geyserville, sempre in California.
Il risultato è un menu degustazione composto da 20 assaggi, che prende le mosse dalla Champagne Bubbles Lounge, con vista sui vigneti, e si conclude in dolcezza nella Chocolate Room. Keane spiega di essere partito dalla disamina delle migliori esperienze gastronomiche mai compiute, solitamente a casa di qualcuno: allora il piacere del cibo è esaltato da quello della conversazione. Ed è la situazione che intende riprodurre. “Prendiamo il servizio e il cibo molto seriamente, ma non ci prendiamo troppo sul serio. Dopo tutto è solo una cena”, aggiunge.
È già conviviale la partenza nella lounge, con un calice di bollicine e una sfilza di assaggi ricercati. Ma l’esperienza si fa immersiva quando si passa alla Kitchen Table, dove gli ospiti possono osservare le manovre di cucina e interagire con i cuochi. Vengono esplicitamente sollecitati ad aggirarsi per gli spazi di lavoro e porre domande, in modo da familiarizzare, mentre degustano la seconda tornata di assaggi. In questo modo svapora parte del mistero e dell’elitismo dell’alta cucina, mentre i cuochi, solitamente rinchiusi dietro il pass, hanno occasione di divertirsi a loro volta.
Poi il pasto entra nel vivo della sala con vista sulla vallata, dove diventa stanziale. Qui vengono servite le portate più importanti, prima del finale nella stanza delle dolcezze, dove davanti a una fontana di cioccolato gli ospiti ricevono un omaggio costituito da cioccolatini della casa. Il tutto a ripercorrere le orme di un pasto domestico, dall’aperitivo in salotto al giro in cucina, fino alla cena vera a propria e alla degustazione sul divano.
Ma c’erano i nodi da sciogliere, quelli di sempre, portati alla ribalda dal covid: il basso rendimento, il turnover elevato, lo stress alle stelle, i salari da fame. “Ospitalità significa sì prendersi cura di altre persone, ma in qualche modo avevamo dimenticato come prenderci cura dei nostri dipendenti. Penso che il settore fosse troppo ossessionato dal pensiero di un marchio di pneumatici o di acqua minerale. Perché non dovremmo fare profitto, pagare le persone il giusto e trattarle bene, con le ferie del caso, e nello stesso tempo creare un’esperienza magica per chi ci visita? Stiamo chiedendo a meno persone di fare più cose ogni giorno (o in modo più efficiente), pagandole bene e concedendo il giusto congedo. È matematica e ingegneria al tempo stesso”.