Si chiama Kvitnes Gård ed è un ristorante incomparabile: qui Halvar Ellingsen, già premiato come miglior chef della Norvegia, esplora e reinterpreta l’eredità culturale e gastronomica di un territorio, che non si è fatto domare dai ghiacci e dai cliché. La fattoria di famiglia è oggi un fine dining con una lista d’attesa lunga 6 mesi.
La storia
Non ci si arriva per caso, a Kvites Gård, “fattoria” sperduta fra i ghiacci del circolo polare artico, immersa nei fiordi della Norvegia settentrionale. Qui nessuno si aspetterebbe di trovare, passando fra gabbie di conigli e capre, galli e galline, stalle di maiali e filari lussureggianti di verdure, una casa secolare, ora adibita a ristorante fine dining e locanda. Come racconta anche la BBC in un recente reportage, ha deciso di farvi ritorno nel 2015 Halvar Ellingsen, dopo esperienze in ristoranti stellati, ora chiusi, come Bagatelle e Ylajali, culminate nel titolo di migliore chef della Norvegia, il più giovane di sempre.
Lui però voleva altro: raccogliere l’eredità familiare e gastronomica della Norvegia più remota, fondando il suo ristorante nel 2020. La racconta in menu composti di 23 passaggi rigorosamente stagionali e locali, baciati da un successo tale, che bisogna aspettare fino a sei mesi per accaparrarsi un tavolo. Ed è un tuffo pressoché etnografico nelle forme di vita delle comunità che da queste parti si sono abilmente arrangiate, fronteggiando le avversità meteorologiche.
Non manca niente: ci sono la serra, che evita la necessità di rifornirsi altrove, il forno a legna per affumicare il salmone della cena e un “tè” reinventato con un pot-pourri di erbe locali. Ellingsen è un entusiasta: per lui la cucina di queste latitudini è stata sempre fraintesa, quasi che dovesse limitarsi a fermentare ed essiccare gli alimenti mediante approcci pressoché primitivi. La sua missione è proprio dimostrare che no, c’è molto altro di cui andar fieri. Certo prima del 1971, quando fu scoperto da queste parti il petrolio, si viveva di quel poco che c’era: pesce, patate, burro, pane. È stato Ellingsen a cambiare le semine della fattoria, iniziando a lavorare le alghe dei fiordi e le teste di violino, tenere fronde di felce.
Poi ci sono i funghi della foresta, le erbe spontanee e le bacche del foraging, a testimonianza di una biodiversità che non si fa domare dal ghiaccio. E fra i pani spunta il gahkko, specialità tradizionale dell’etnia sami, aggiornata tecnicamente e affinata sotto il profilo organolettico. Colori, sapori, profumi capaci di strabiliare anche gli autoctoni, ignari delle potenzialità e dei tesori nascosti di un angolo di mondo, troppo spesso congelato in stereotipi.