Dallo scheletro del pesce all'ossatura del piccione, fino alle estremità affilate di una rosa o di un arbusto selvatico: nel Cedroni-pensiero la spina sorregge, sfuma e poi sfama. Senza smettere di incidere quel sottile tessuto sensoriale che in tutti noi s’attiva solo quando il cibo diventa interazione.
Foto dei piatti: Brambilla-Serrani
Foto di copertina: Mattia Alberani
Da quando l'uomo fa bottino negli abissi, la lisca è un'insidia borderline che segna lo spartiacque fra edibile e non edibile; un dilemma pungente risolto in sottrazione, da eliminare d'emblée per schivare ogni ipotetico rischio. Senonché, nella testa di un cuoco impegnato da più di 40 anni a esercitare il suo stile libero contro l'uso parziale della materia, lo scoglio del rischio s'affronta e non s'aggira. È così che Moreno Cedroni ha posto sulla spina un accento acuto echeggiante in tutte le voci del degustazione "Luca e Moreno" 2025, ultimo attracco del consueto gemellaggio on boat con Luca Abbadir; alla fonte, mesi d'incubazione che oggi rendono il collagene un convoglio espressivo dell'assaggio complessivo. Dunque, per buona parte dell'excursus la rotta tracciata dal team di bordo della Madonnina segue un unico punto cardine: la riscossa dell'osso, che sia polverizzato, convertito in salsa o addomesticato da una trama bonaria evitando la consueta sfilettatura.


Non è un gioco di ruolo, è una caccia alla sostanza nascosta dietro a un apparente scudo d'immangiabilità -quasi come se l'ospite fosse invitato a superare un limite mentale istintivo, aprendo insieme la bocca e il pensiero all'ignoto. Eppure, la fase di ambientamento dura appena cinque-sei minuti di liveshow in sala, dove lo stesso chef giunge a semplificare la "maratona scientifica" annuale con una passerella di ingredienti inattesi: "Ci si meraviglia costantemente scoprendo quanto sia profonda la diversità di umori al mutar della specie", racconta Cedroni, in mano un vassoio di spine e nel discorso la preview del piatto che verrà.

"Alla fine, ciascuna di esse rappresenta la biografia essenziale dell'animale. Una sorta di cronistoria che possiamo leggere e fissare nella memoria a lungo termine, traslando sul piatto l'identikit di rombi, tonni, ricciole". Ciò grazie ad un arsenale tecnico che scaglia bene i suoi colpi, ad iniziare dall'Ocoo, pentola coreana capace di "sciogliere" il rigore strutturale di un apparato resistente per definizione. Se, però, a giudicar dalle premesse verrebbe facile aspettarsi un'antologia prettamente ittica, scorrendo i copy delle varie corse l'idea "madre" si estende all'intera dispensa naturale. Lo scheletro di un volatile, le estremità affilate di un arbusto, il miele estratto da un frutto custodito nel suo riccio-corazza: la spina sorregge, sfuma e poi sfama. Senza smettere di incidere quel sottile tessuto sensoriale che in tutti noi s'attiva solo quando il cibo diventa davvero interazione.


La Madonnina oggi: "40 anni + 1" di accoglienza e ricerca
A voler trovare una keyword, viene in mente "leggerezza": quello della Madonnina è uno studio tanto spinto nelle retrovie, quanto letteralmente sussurrato ai tavoli (fuor di metafora, persino nel timbro di voce; vedi l'aplomb di un Moreno Cedroni intento a spiegare con toni pacati le creazioni di maggior fibrillazione concettuale). E allora, al bando la prassi del tasting "liturgico": qui il servizio si sdoppia fra intervalli ludici e piccole premure, rendendo partecipi i commensali della genesi del menu. Un salto in lungo che sposta in là la soglia di attenzione, sventando il calo di interesse cui spesso si finisce per cedere già verso metà pasto. Lo dimostra Mariella Organi, "partner in dining" dello chef nell'imbastire un intreccio di narrazione e gestualità che potremmo definire il sunto più esaustivo di questi 40 anni di accoglienza.



Né manca il "pepe" di un approccio elastico al cliente, favorito dal savoir fare della triade Mauro Scarponi-Silvia Tassi-Paolo Rossi, pronti a dissolvere l'atmosfera rarefatta che talvolta isola in una bolla di tecnicismi chi viene inondato di teoria appena seduto. Sì, perché l'insegna di Marzocca -a dispetto dei luoghi comuni sull'astrattismo dell'alta cucina- oltre alle porte del ristorante spalanca pure quelle del The Tunnel, sorta di limbo sperimentale che rimodula il tempo di trasformazione degli elementi in alimenti. Poteva essere una zona vietata ai non addetti ai lavori; è invece un ulteriore meeting point fra brigata ed esterni, scortati davanti a celle di maturazione e macchinari di distillazione subito dopo aver concluso il dessert.



I piatti
L'incipit di "Spine" ti proietta nel medesimo istante fra i chioschi gremiti di una città asiatica e su un peschereccio in piena regata mediterranea: il benvenuto non è una sfilza di miniature di rito, bensì un duplice boccone che fa affiorare le reminescenze di uno spezzafame multiculturale. Da un lato, quindi, il friabile Cracker di spine e teste di alici fritte, col residuo osseo inglobato in un impasto "acqua e farina" e schiacciato da una piastra insieme a un polpetto, per simulare lo street food asiatico; dall'altro il Panino sfogliato alle alghe, alici marinate in acqua e aceto, okra, zenzero e carota fermentati -il revival dell'antipasto di mare che rinfresca la memoria sul filo della costa. Da bere, un Margarita al pomodoro e sedano dalla discreta presenza spumosa: papille in allerta e si salpa verso il primo slot di contrasti.

È un palleggio dolceamaro il Riccio, erbe bruciate e umeboshi, con le botaniche dell'orto "maison" abbrustite ai carboni da prendere in punta di pinzetta e rimestare nella salsa di datteri, prugne fermentate e polvere di cavolo viola. L'accenno di masticazione innesca pian piano la mandibola, dando allo scrocchio gentile il compito di prolungare la scia fumosa: un affondo che vince il set sul bagnasciuga.

Ferma in carta dal 2016, l'Ostrica quest'anno viaggia in compagnia del peperoncino Habanero e del succo di lime, segnando peraltro il debutto di un diverso tipo di spina: quella vegetale. Il mollusco, scottato alla griglia e tronfio nella sua carnosità, si lascia infatti idratare da una corroborante salsa all'olivello spinoso. Ne deriva una salivazione a go-go che stende la stola al crudo, visto il ritorno della Ricciola: è lei la seconda habitué nell'archivio storico della Madonnina. A innalzare il pesce azzurro su un piano terrestre, bastoncini di mela, polvere di coriandolo e un fondale cremoso di rosa canina con la sua bacca confit: dall'alto pare proprio un bocciolo con petali e aghetti difensivi; la "rosa marina" che non hai mai visto prima. Tutto mentre sulle guance resta impressa la carezza della lattuga di mare, caramellata in acqua e zucchero per smorzarne le tinte e gli echi salmastri.


Ugualmente radicato nel Cedroni-pensiero, il labor limae sul Moro oceanico arriva in tal caso ad azzerare totalmente l'eccedenza. "Amo molto la spigola cilena per via della tempra robusta, nonché dei sentori di cocco conferiti da una dieta ricca di piccoli crostacei", spiega lo chef. Ne dà prova un'oliocottura coi guanti bianchi: 60 gradi e 45 al cuore. Ma il coup de théatre sta nella realizzazione di una salsa composta al 100% dalle lische, "cui non serve aggiungere addensanti, essendo di loro particolarmente grasse". Sicché del pescato non si perde neanche una squama: "Abbiamo portato allo step successivo l'impiego di questa specie nobile, ferma restando la pelle, sulla quale incentriamo da sempre la nostra prassi del riutilizzo". L'estetica corre in parallelo, poiché la livrea del Moro viene riprodotta adagiando del caviale sul topping setoso.

All'estremo opposto, zero lische nella Razza: "Contiene solo cartilagini, che suonano sotto i denti in modo simile a un grissino o una crosta di pane in accompagnamento". Pretesto ideale per rilanciare al volo la mordenza: il crock s'alterna in una hit pericolosamente appetibile col sottofondo baritonale della salsa di champignon, prezzemolo croccante alla brace e fungo Orecchio di Giuda. Manca qualcosa? Sì, un bite infinitesimale per riportare indietro le lancette: funzione assolta da un cubetto di tofu di pasta di mandorle che deterge il palato da cima a fondo.

Sebbene sia, fra le 7 presenti, l'unica portata principale completamente priva di spine, entra di diritto nel dream team 2025 la Genovese di tonno con kimchi di cipolla, un volo diretto in Corea che spazza via il jet leg con la sua avvolgenza sfaccettata. "Andando controcorrente, abbiamo scelto contrappunti dolci e piccanti piuttosto che aspri e amari", chiosa lo chef. "Kim, membro-chiave della brigata, realizza un kimchi irresistibile con tanta cipolla". Da lì bulbo scomposto in un prisma di effetti complementari, fra la crema con polvere di lamponi e il sopracitato kimchi. Neanche a dirlo, il tonno rimpiazza il manzo sottoforma di ventresca, giovandosi di un blend di fragranze sui generis: trito di prezzemolo alla julienne e basilico, sì -ma thailandese!

Fermo immagine: proprio quando col Piccione t'aspetti un "total meat", appare la spina di rombo "lasciata seccare, cotta 4 ore nell'Ocoo (una pentola coreana con ceramica al germanio, capace di scioglierla grazie agli infrarossi, ndr) e successivamente liofilizzata", per poi ricompattarsi nella sagoma di una candida conchiglia. La sala te la mostra e te la grattugia in diretta a guarnizione del petto, posando una virgola di iodio sull'animale frollato nella cera d'api per oltre un mese, così da frenarne lo strascico ferroso. E alla fine il volatile s'ambienta al meglio sul lungomare, lambito da un pesto di alghe e dal suo stesso "scarto salvato": "Le ossa non potevamo gettarle via". Detto, fatto; diventano una salsa suadente con l'apporto di burro e sherry dolce.

Se la Genovese alla Madonnina vuole il tonno, l'Ossobuco non è da meno. "Prendiamo la parte vicina alla coda (piena di tendini per consentirne il movimento, ndr) in quanto, data la trama particolarmente viscosa, si presta ed esser cotta 'stile bollito', generando una curiosa assonanza fra tonno e maiale". Momento rivelazione: quello che sembra un osso è in realtà la spina del pesce, cinta da un tessuto polposo e servita per l'occasione con un "esponente comfort" di purè e cavolo viola: il carrello del bollito under the sea. Diluisce l'assaggio in due fasi il piatto scomposto a mo' di yin e yang: a sinistra l'"Ossobuco degli oceani", a destra gli ultimi nervetti avanzati con la pala di fico cruda e la cipolla agrodolce. Forse il passaggio che evidenzia meglio l'interscambio continuo di materia del menu, giacché Cedroni inserisce pure una demi-glace per riutilizzare le ali e le coscette del piccione, già ampiamente trattato nella corsa precedente.

Il tempo di assimilare il concetto e irrompe in tavola l'highlight dell'itinerario, "Paglia e fieno". Lungi dal dimenticare l'entroterra, lo chef remixa uno dei suoi capisaldi più rappresentativi in un vortice acquatico: per rimpiazzare il fieno, un'alga spaghetto; per evocar la paglia, una base composta al 50% di farina di lische di pesce bianco e al 50% da farina di cereali. Pausa di riflessione, è il momento del confronto: stavolta il mâitre spolverizza una spina di ricciola liofilizzata che vira verso il tabacco, con una persistenza ben diversa dalla lisca di rombo cosparsa sul piccione. Siamo di fronte a un "Parmigiano di mare" dalla meravigliosa estensione umami, paragonabile al prodotto semistagionato. A verticalizzare il "primo-non primo", burro acido, colatura di alici, pepe indiano ed alga essiccata. Dal suolo ai flutti, è questa la sintesi di "Spine": un surf di ecosistemi sull'onda del reimpiego.

In chiusura, gli zuccheri avanzano a passo felpato: se la panificazione di Luca Abbadir risale una scala di fragranze dimenticate (tra farine marchigiane e Tumminìa), quello dei fine pasto è un triplo salto cerebrale nell'evoluzione del dessert. Stacco netto col Ceviche di frutta, gelato al miele di castagno e sorbetto di alici, colato in un piatto di cera d'api per l'affinità elettiva fra contenitore e contenuto. Affinità che chiama all'appello la medesima nozione di spina, poiché la castagna in natura è protetta dal riccio. Di rimando, la Tarte tatin moltiplica il rovesciamento originario in un crescendo botanico: al posto della mela, ecco il sedano; via il gelato basic, dentro c'è la rosa di Damasco (con tanto di spine ossidate e liofilizzate!); zero code sciroppose, ma una marmellata allettante all'aceto balsamico.


La Spina dolce è la prova che una lisca può comporre persino un dessert ai tre cioccolati "da leccarsi le dita". E ci si alza così, con un'ultima istantanea graffiante stampata in mente.

Indirizzo
Madonnina del Pescatore
Via, Lungomare Italia, 11, 60019 Senigallia AN
Tel: 071 698267