Recentemente premiato da Les Grandes Tables du Monde quale migliore ristoratore del mondo, Daniel Boulud continua a lanciare nuovi ristoranti di successo. “Ma io resto uno chef: andare al lavoro ogni giorno mi fa schizzare l’adrenalina”.
L'intervista
Sul suo impero non tramonta mai il sole: celebre e celebrato per Daniel, ristorante bistellato a Manhattan, oggi il (quasi) sessantottenne Boulud manda avanti fine dining, caffè e bistrot sparsi da Londra a Singapore, passando per Dubai. Solo l’anno scorso ne ha lanciati un paio: Le Voyage, ospitato a bordo della nave da crociera Celebrity Beyond, e Le Pavillon, giapponese incentrato su vegetali e frutti di mare, ospitato in un grattacielo di Manhattan (e non manca la steakhouse gourmet, in cantiere per il 2024). Ne hanno preso recentemente atto Les Grandes Tables du Monde, conferendogli il titolo di migliore ristoratore del mondo.Ha rappresentato la meritata consacrazione per una carriera straordinaria, iniziata a quattordici anni, quando Boulud, figlio di contadini lionesi, già sgobbava in cucina, per poi farsi le ossa negli stellati cittadini, emigrare a New York nel 1982, lavorare a Le Cirque e poi fondare nel 1993 il suo Daniel, autentica istituzione della ristorazione americana, che ha declinato in chiave contemporanea tecniche e savoir-faire della madrepatria francese.
Lungi dal montarsi la testa, Boulud resta tuttavia famoso per la sua affabilità. “La bellezza di questo mestiere è la fraternità”, dice. “Penso che la squadra sia il segreto del successo, dal servizio alla cucina, dal momento che ciascuno può impattare sull’esperienza dell’ospite e gioca il suo ruolo nel costruirla. Le mie qualità più apprezzate sono la lealtà e la dedizione. Nei ristoranti ci sinceriamo di offrire ai nostri uomini ogni strumento per avere successo e superare gli obiettivi”.
“Io non do niente per scontato, conto le mie ferite, continuo a reinventarmi e resto fedele a me stesso. Nessuno è perfetto, continuiamo sempre a imparare, innovare ed evolvere. Lavorare a nuovi progetti, iniziare nuove cucine, creare nuove visioni è eccitante. Ma il semplice andare a lavoro ogni giorno, proteggere ciò che facciamo e riconsiderare costantemente le nostre azioni, in modo da reggere meglio la competizione, fa schizzare l’adrenalina. Sono uno chef francese che ama fare cucina francese. Insegno ai miei la virtù dell’organizzazione e l’arte gastronomica”.
“Tutti noi ovviamente ci preoccupiamo di titoli e premi, ma la mia priorità è sempre stato il cliente. Posso creare bei ristoranti e formare grandi squadre, ma non sono nulla senza il suo sostegno. Nei ristoranti premiati, non sai mai se la gente va per le stelle o perché ama il cibo. Ma io non voglio essere l’ennesima casella da barrare. Potrei fare un unico degustazione e guadagnare un’altra stella, ma non sarei più me stesso. Voglio offrire una carta ricca di opzioni per motivare gli ospiti a tornare, come è sempre successo in questi trent’anni, conoscere il nome di ogni cameriere, entrare in relazione con lo chef e il barista. Per me è importante. Amo essere considerato un cuoco, prima che un ristoratore, tanto che vivo sopra il ristorante. La prima cosa che faccio al lavoro è indossare la giacca e informarmi in cucina, poi durante il servizio vado in sala, saluto gli ospiti, prendo gli ordini e verso il vino. Il ristorante è un’estensione non solo mia, ma di tutta la squadra”.
Né manca qualche consiglio per i giovani. “Non si tratta di trovare un ristorante fantastico dove lavorare, ciò che conta è essere pazienti e scegliere un buon mentore, che possa insegnarti e aiutarti a diventare un bravo cuoco. Sono stato fortunato ad avere così tanti maestri, cui appoggiarmi nella mia carriera. Negli anni ’70 hanno attraversato il mondo, dal Giappone al Brasile, per insegnare ai giovani chef come diventare grandi. Un buon mentore ti seguirà, consiglierà e incoraggerà in modo da continuare a crescere”.
Fonte: theedgesingapore.com
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Foto di copertina: @Kris Connor-Getty Images for NYCWFF