Dallo scarto zero alla fattoria rigenerativa, fino alle tre stelle Michelin e all’impero gastronomico intercontinentale: tutto nel rispetto dei dipendenti, che lavorano solo 3 giorni e mezzo a settimana. La storia di Simon Rogan insegna che fare le cose nel modo “giusto” può portare lontano.
La notizia
Il bello è il buono, ma il buono è anche giusto. Suona come l’assioma della cucina contemporanea, sempre più trapuntata di stelle verdi; ma è una formula su cui si può costruire perfino un piccolo impero. È successo a Simon Rogan, antesignano del verbo green in UK, il cui gruppo di ristoranti si estende oggi da Malta a Hong-Kong, con altre aperture già in itinere in Asia.“Tutto ha avuto inizio dal bisogno di ingredienti di qualità. Ci ha condotto all’ethos che abbiamo oggi sul fare le cose nel modo giusto, sempre meglio, dando un piccolo contributo al pianeta. Sono sempre stato ossessionato dagli sprechi, una specie di disturbo ossessivo compulsivo. Mio padre lavorava in un mercato di frutta e verdura. Tornava sempre a casa con un insieme di cose e molte non le usavamo perché non le conoscevamo. Questo ha sviluppato in me un’attitudine alla curiosità. Mi chiedevo cosa fossero e cosa se ne potesse trarre. Poi quando ho iniziato a lavorare nelle cucine professionali, ho incontrato un paio di chef assolutamente convinti che nulla dovesse finire nel bidone, letteralmente nulla. Mi hanno profondamente influenzato”.
È stato con questo spirito che nel 2001 ha aperto l’Enclume nel villaggio di Cartmel, in quella che era l’officina di un fabbro. “Mi ci sono voluti due anni per trovare il posto giusto. Non avevo la più pallida idea di dove sarei approdato, ma mia moglie Peggy, che non veniva dal settore, mi ha appoggiato. Mentre cercavamo abbiamo attinto dai nostri risparmi. Fortunatamente, grazie a un buon rapporto con i proprietari dello stabile, la location di Cartmel ha funzionato sotto il profilo finanziario, così abbiamo deciso di trasferirci, senza essere della zona né sapere da dove sarebbero arrivati gli ospiti”.
“Tuttavia, avevo le idee chiare su cosa volevo e come avrei cucinato. Ero fortemente influenzato da Marc Veyrat e dalla sua ricerca su erbe alpine e fiori spontanei. È molto avanguardista, con esecuzioni moderne e tante tecniche. Durante i primi otto o nove mesi ho cucinato come sapevo, poi ho decantato pian piano il mio stile, che ci ha portato fin qua. Ma non è andata sempre così; da giovane chef in cerca di fama e riconoscimenti, ogni tanto finisci fuori strada. Quindi sono stato attirato dalle tecniche spagnole e da tutto quanto arrivasse da elBulli, poi ho cercato ispirazione in Francia e in Giappone. È diventato tutto un po’ confuso, fin quando non ho sentito il bisogno di tornare alle radici usando ingredienti britannici”.
Era l’inizio di Our Farm, l’orto di Rogan nella valle di Cartmel. “Sono sempre stato favorevole all’autoproduzione, ma è stata la scarsa qualità degli ingredienti locali ad accelerare il progetto. Poi è partita la valanga. Ma non sono mancate le difficoltà. Non avendo esperienza, seguivamo le tecniche delle fattorie bio progressive, ci definivamo contadini da Google. Talvolta funzionava, talvolta no”. Quello che Rogan appena intuiva, era che in quel campo stavano sbocciando anche cucina e successo.
“Al mercato o da un fornitore, conosci solo un pezzo della pianta; ma in una fattoria vedi ogni dettaglio: il gambo, la radice, il fiore, la foglia, il polline. Troviamo il modo di usarli tutti, divertendoci. Coltiviamo quello che vogliamo, nella dimensione che preferiamo e cogliamo ciò che usiamo. Abbiamo il vantaggio di poter pianificare perché sappiamo cosa arriverà e possiamo preparare conserve. Il tutto in una valle così bella e silenziosa, dove nemmeno funzionano i cellulari. La fattoria è forse la cosa migliore che abbia fatto nella vita, ne vado incredibilmente fiero”. Tecnicamente si tratta di agricoltura biodinamica e rigenerativa, che si situa un passo oltre la sostenibilità, perché non mira solo a preservare, ma a restaurare la fertilità originaria del terreno e a promuovere la biodiversità.
La sfida però è anche umana: “Vogliamo che le persone si fermino da noi a lungo. È abbastanza difficile trovare personale, il comparto ha una cattiva reputazione, fatta di maltrattamenti, orari interminabili, compensi inadeguati. A suo tempo li ho accettati perché mi piaceva, ma non dovrebbe essere così. Trattando bene le persone, formandole, pagandole e facendole lavorare il giusto, riusciamo a trattenerle”. Significa settimane lavorative da tre giorni e mezzo (presto anche negli altri ristoranti britannici del gruppo, mentre Hong-Kong si ferma a quattro), ma anche programmi e occasioni di formazione, per esempio in agronomia, che possono aprire nuove opportunità di carriera.
Fonte: prestigeonline.com
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