In uno dei ristoranti più a nord del mondo, situato in un arcipelago norvegese, cucina uno chef spagnolo. “La mancanza di prodotto mi ha reso più astuto”, è il commento su piatti composti di semi estratti dal gozzo delle pernici e filettini di foca in conserva.
La storia
Quattromilaquattrocentoquarantanove chilometri fanno un bel gap culturale, e anche gastronomico. Ne sa qualcosa Alberto Lozano, chef originario di Albacete, in Spagna, che da un anno officia presso il ristorante Huset, nell’arcipelago norvegese di Svalbard.“Ero una boccia persa”, ricorda il quarantaduenne a proposito degli anni spesi a scuola. “Mio padre mi cercò un posto dove lavorare in estate, per farmi passare la voglia di diventare cuoco, ma è successo tutto il contrario”. Sui suoi passi ristoranti di Ibiza a Mallorca, Epicurean e una discoteca a Londra. Poi il ritorno ad Albacete, un bar e un ristorante dedicati al concept “funghi”, la chiusura nel 2008 a causa della crisi e il trasferimento nelle Alpi francesi, al servizio di una catena alberghiera svedese, come responsabile di tutta la ristorazione del gruppo.
La vita scorreva tranquilla fino a un anno fa, quando i norvegesi di Hurtigruten, che organizza le crociere nei fiordi, non gli hanno proposto di trasferirsi a un passo dal polo, in una struttura di loro proprietà: Huset, ristorante ubicato nel palazzo più vecchio dell’arcipelago, risalente agli anni ’50. “Da queste parti ci sono più orsi che persone. Si tratta di un luogo inospitale, che tuttavia vanta un turismo altissimo. E ci sono cose incredibili, come la banca dei semi della fine del mondo, che attira molti visitatori”. Alcuni arrivano con la motoslitta; altri in estate, via mare, per osservare i grandi cetacei che vengono ad accoppiarsi.
Il primo problema, ovviamente, sono i prodotti, specie quando l’obiettivo è ridurre il chilometraggio, con la sola eccezione dell’extravergine spagnolo. La zona offre pesca, selvaggina, funghi e altri vegetali, come sedano rapa e barbabietola, ma solo in stagione. “Cerchiamo di fare in modo che le proteine siano tutte locali. In inverno non ci sono né pesca né cacciagione, né niente. Per questo conserviamo tutti gli ingredienti che riusciamo a produrre in estate e fermentiamo per coprire la stagione fredda. Abbiamo la licenza per la raccolta, che sarebbe proibita. Qui tutto è controllatissimo e protetto. Non si può neppure evadere dalle strade del paese”.
La necessità aguzza l’ingegno, ed è stato così, per esempio, che un giorno Lozano, trovando semi nel gozzo di una pernice cacciata, ha pensato di conservarli, disidratarli e servirli con burro di fattoria. Creando un suo signature. All’interno della struttura, poi, è stata creata una serra dove coltivare piante da semi locali e non. E c’è il plancton. “Abbiamo già alcuni piatti in menu, come i bonbon di cioccolato fondente ripieni di fitoplancton e lavanda. Ma anziché comprarlo, preferisco raccoglierlo direttamente. Per questo mi sto organizzando con l’impresa Green Dog”.
Piatti che confluiscono nel menu degustazione da 16 corse al prezzo di 150 euro, 300 con gli abbinamenti attinti da una cantina di oltre mille referenze. A degustarli, sorprendentemente, non sono solo turisti altospendenti in cerca di emozioni, ma anche cittadini locali, curiosi di riscoprire gli alimenti di sempre. Ed è un bene anche per la creatività. “La mancanza di varietà del prodotto mi costringe a svilupparmi in modo più astuto. Per esempio, cuciniamo la foca, che è la proteina dell’artico, la frolliamo, mettiamo sottaceto, affumichiamo e presentiamo come un filettino su un wafer alle alghe, con ribes sottaceto e fiori”. Poi c’è il baccalà, di cui non si butta via niente, neppure le spine. Suggestive le stoviglie, grazie all’uso di fossili e ossa di renna, per “trarre il massimo dal poco che c’è”.
Fonte: El Pais
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Foto di copertina: @TIMO VIRMAVIRTA