Sulle sponde del lago di Como, in uno dei ristoranti più belli del mondo, il grande chef mette nel mirino la coincidentia oppositorum fra tecnica e natura, avanguardia e classicità, materia prima, storia e personalità creativa.
La Storia
La cucina molecolare di Ettore Bocchia
La cucina molecolare? È viva e lotta insieme a noi. Basta imboccare il vialetto fiorito che dall’increspatura delle luci sull’acqua si inerpica su verso la Villa cinquecentesca, maestosa nell’equilibrio dei volumi e nell’armonia col paesaggio, per averne improvvisa contezza.



Quasi che il ristorante Mistral, che si stira dallo scrigno dei saloni fin sulle terrazze, alla ricerca di uno spettacolo senza pari, si ponesse quale moderno rehab. Al posto degli aristocratici esangui ed emaciati di una volta, rubizzi gourmet bisognosi di sollievo dagli infiacchimenti della contemporaneità, grondante sangue dalle ferite dei riduzionismi, ossificata dai primitivismi di maniera.

Niente di tutto questo sulle tavole apparecchiate da Ettore Bocchia, chef abituato a regatare controcorrente, che si tratti delle Crociere Costa, di cui è consulente, o del pelago della cucina, ieri procelloso, oggi inchiodato alla bonaccia delle nostalgie bucoliche. Nato a San Secondo, nel cuore della Bassa Parmense, da genitori operai, che di tanto in tanto si toglievano lo sfizio di un savarin dai Cantarelli, presso cui dava una mano zia Linda; diplomato all’Alberghiero di Salsomaggiore e passato come un picaro attraverso impieghi improbabili (fruttivendolo di giorno e barista di notte), stage e stagioni prestigiose all’estero, a Villa Serbelloni è approdato prima dei trent’anni, nel 1993, scalandovi l’organigramma di cucina.

La folgorazione per la “cucina molecolare” è datata 1989, come Il cibo e la cucina, scienza e cultura degli alimenti, opera miliare di Harold McGee che lo ha messo sulla pista di Hervé This, Pierre Gagnaire, Heston Blumenthal e finalmente Davide Cassi, professore di fisica presso l’Università di Parma, con il quale ha allacciato un sodalizio epocale.
I Piatti
Il menu molecolare che si può mangiare ancora oggi al Mistral è in larga parte figlio dell’entusiasmo di quegli anni, sebbene le ricerche siano poi continuate, in tandem con Vincenzo Brandolini dell’Università di Ferrara o studiando fisica della materia da solo.

Ecco allora le tecniche messe a punto from scratch nel leggendario menu 2002: la pasta alla lecitina, dove l’emulsionante sostituisce le uova; la frittura in una miscela di zuccheri fusi, che preserva in sommo grado l’integrità della materia; la preparazione del gelato con l’azoto liquido, che grazie alla temperatura moderata non anestetizza il palato, e così non preclude l’abbinamento con il vino, passione e motivo ispiratori di tanti piatti in carta. E ancora la cagliata d’uovo, la nuova meringa all’italiana e la gelificazione degli amidi; innovazioni cui si è aggiunto nel tempo l’impiego dell’inulina al fine di ridurre in chiave nutriceutica zuccheri e grassi.


Il risultato è molto diverso dalle pirotecniche che sarebbe lecito aspettarsi: nessun effettismo a buon mercato, non un sospetto della dimostratività schiaffata altrove sul piatto. La classe e la cifra del Mistral stanno anzi nell’aver sottratto la molecolare alle grinfie smaltate dei suoi interpreti barocchi, quelli per cui, parafrasando Marino, è del cuoco il fin la meraviglia, e “chi non sa far stupir, vada alla striglia”. A profilarsi è piuttosto una inedita e levigata declinazione classicista, perfettamente a suo agio nella cornice estetizzante del lago, fra i soffitti a cassettoni e la distesa dei tappeti persiani.


È il caso dello strepitoso rombo assoluto cotto nello zucchero con spuma di patate, salsa dei porri nei quali è stato cotto e verdure al vapore, dove la polpa del pesce fuoriesce opalescente e soda dal bagno rigeneratore nella contemporaneità: tutta la tempra e l’integrità del crudo in una ricerca ossimorica ispirata alla testura. Oppure della Pesca Melba rinfrescata dai fumi futuribili del gelato estemporaneo alla crema, paradigmatica del cordone ombelicale con il grande repertorio francese.


Ma in carta premono anche il Giappone (vedi il delicato tonno di Fano in tre versioni: tartare, ventresca laccata e ristretto di katsuobushi) e la grandeur del Rinascimento (i ravioli di pavone dal soave gusto di pesca, retaggio dei banchetti di corte).


Vivere la tecnica con la massima profondità: è questa l’esperienza del Mistral. Ed è una tecnica squisitamente platonica, quella tratteggiata nell’etimologia del Cratilo, secondo cui: “Techne deriva da héxis nou che significa: esser padrone e disporre della propria mente”. Si tratta di governare le trasformazioni della materia in modo tale che questa possa emergere con la massima naturalezza: insomma di una disciplina dell’attenzione mediata dalla conoscenza. Perché come recita un altro dialogo, il Gorgia, “io non chiamo tecnica ma semplice pratica quell’attività che non sa spiegare razionalmente la natura del suo oggetto né dei suoi strumenti e, incapace di dare ragione dei fatti, non è assolutamente in grado di collegarli alla loro causa”. Una molecolare vecchia 2500 anni.

In sala la classe di Carlo Pierato, maître dell’anno per l’Espresso; in carta (a rotazione) 300 referenze affidate ai tastevin di Antonio Alberti e Leonardo di Zanni.
La foto di copertina è di Gabrio Tomelleri
Indirizzo
Ristorante Mistral – Grand Hotel Villa SerbelloniVia Roma, 1 – 22021 Bellagio (CO)