“Dar forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria”. Modellando magari i triangoli zigrinati dei tortelli di zucca, piatto iconico che con la storia custodisce anche la spezia filosofica di Kundera.
La Storia
La cucina umanistica di Nadia Santini
Sembrano solo cinque pezzi di pasta messi in fila, i tortelli di zucca di Nadia Santini; eppure dentro non c’è solo un po’ di betacarotene passato al setaccio. Piuttosto una lezione che dal 1974 suona controcorrente, docilmente tenace, gentile e pur tuttavia sovversiva rispetto alla gastronomia di volta in volta mainstream. Quella di una famiglia che ha fatto germinare l’eccellenza dalla zolla popolare con sapienza tutta contadina, senza accendere mutui presso le intelligenze straniere o le aristocrazie costituite.



100% made in Italy, quindi, anzi in Canneto. Un brand che macina successi come una Ferrari dentro l’oasi silenziosa del Parco sull’Oglio, fra le oche che starnazzano e i tonfi sordi dei remi sull’acqua. Certo la cucina può sembrare un po’ pigra in questi tempi al fast moving, fra le raffiche sfocate che ci mitragliano la retina; eppure il suo movimento custodisce una sapienza. Nella consapevolezza che “c’è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra velocità e oblio”. E che “nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria, il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio”.


Lo stesso ritmo organico cadenza il ricambio generazionale davanti e dietro il pass o il ciclo con cui si riempiono e si svuotano le celle frigo. Dove tanti prodotti provengono dall’orto e dal cortile della casa: anatre, oche, faraone, tacchini, galline con le loro uova sontuose per la pasta. E ancora frutta e ortaggi in gran copia, cui si aggiunge qualche canestro di stagione preso al mercato di Canneto. Gli stessi salumi talvolta sono propri, senza per questo cucirgli addosso il marketing delle calosce infangate e impolverate sotto la giacca da cuoco.

La stirpe dei sognatori è cominciata con nonna Teresa, che come le rondini volava in Brasile a raccogliere il caffè, e nonno Antonio, traghettatore sull’Oglio nonché fondatore nel 1925 dell’Osteria Vino e Pesce, poi ampliata dal figlio Giovanni con la moglie Bruna in una bucolica trattoria di culto. Fino ad Antonio junior e alla moglie Nadia, autori autodidatti dell’inopinato miracolo gastronomico, già supportati in cucina e in sala dai figli Giovanni e Alberto dopo l’adempimento degli studi universitari.

I Piatti

La direttrice è ancora quella Linea Italia, sposata dalla prima ora con un network di trattorie e ristoranti italiani. Un movimento glocal ante litteram, che applicava pensieri di alleggerimento ed estetizzazione al repertorio delle tipicità regionali, il cui manifesto al punto primo recitava: “la ricerca e l’esecuzione delle ricette deve essere legata alla terra in cui si opera”. Ai tempi suonava come un’eresia, invece era avanguardia pura. Come quel tortello preparato a mano e al momento secondo la coreografia della trattoria ideale. Morbido e rassicurante come una carezza, pur tuttavia corrosivo di lacci e cinghie al pari di qualsiasi classico vero.


La riappropriazione del passato come tradizione dell’istante, scelta consapevolmente giorno dopo giorno, nel tempo ha però aperto le porte a una cucina più variata, che recepisce suggestioni ad ampio raggio ed azzarda con naturalezza la trouvaille.


È il caso della terrina di zucchine alla menta, inno alla clorofilla su un flavour principle meridionale, fresco e leggero (Giovanni, laureato in Scienze e tecnologie alimentari, tiene molto alla dietetica);


dei triangoli di burrata e ricotta con melanzane e quenelle di pomodoro, che trascendono la familiarità in un soave equilibrio amarotico e acidulo;


della succulenta sella di capriolo con purea di castagne e salsa al pinot nero, di cui vengono esaltati gli aromi di bacche rosse e sottobosco;



dei “maccheroni” verticali di ananas alla vaniglia con perle di melograno e frullato di lamponi, explicit leggero come una nuvola, ancora una volta.



Nadia definisce la sua cucina “umanistica”, grazie allo spessore storico, sentimentale e persino antropologico; a noi piace vederla come l’ultima madre di Lione, dei nostri giorni e dei nostri luoghi. Erede di quella Eugénie Brazier, autodidatta e contadina, che negli anni ’30 sparigliò le gerarchie gastronomiche costituite. Ma il carniere del Pescatore non sarebbe così generoso senza il talento di Antonio Santini, autentico animale di sala sempre vigile, sensibile e accorto, un maestro del servizio senza eguali in Italia.
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
Indirizzo
Ristorante Dal PescatoreLocalità Runate - 46013 Canneto sull'Oglio - Mantova