Less is a bore: il vitalismo incontenibile di una grande cucina meticcia
La Storia
La storia di Roy Caceres
Less is more, Ammoniva Mies Van Der Rohe. Contrordine: Less is a bore, obiettava Robert Venturi. Deve aver pensato qualcosa di simile Roy Caceres, al momento di mettere a punto la metaricetta della sua cucina, il cui primo ingrediente sembra essere l’esuberanza: una vitalità tutta latina, garrula, sgargiante, sparata ad alto voltaggio dentro il corpo molle di Roma. Gli sbadigli minimalisti hanno fatto il loro tempo, come gli scalpelli delle michelangiolesche sottrazioni. Sul piatto rampicano fragranze e influenze mai viste, abbagliate dal lampo fluo di una acidità ipercinetica.
Succede a Roma, dove Caceres è approdato dopo un romanzo fantastico. Nato a Bogotà trenta e qualcosa anni fa, ad appena 16 era già a Roma con la madre, trasferitasi in cerca di un’occupazione da badante. La sua prima passione è stato il basket, mollato a malincuore per mancanza di qualche timbro in calce a una scartoffia. Urgeva trovare un lavoro, quando un anonimo deus ex machina gli chiese: Ti interessa un posto da lavapiatti a Misurina? Sono seguite stagioni in giro per l’Italia: Isola Piana, in Sardegna, dove ha conosciuto l’inseparabile Alessandra Spiga, barman del villaggio, oggi madre dei suoi tre figli; Bormio e Forte dei Marmi, dove è arrivata la promozione sul campo grazie all’assenza improvvisa dell’aiuto cuoco, dopo anni spesi a buttare l’occhio oltre la plonge. Sul Monte Amiata il rampone fisso sulla postazione di sous-chef, anche se “era un locale da 150 coperti, cercavo qualcosa di diverso”.
“Sentivo che mi mancava qualcosa: l’enciclopedia dei gusti di famiglia, quelli che si imparano la domenica a pranzo dalle nonne. Così ho cercato sui libri, ho interrogato le persone, nel tentativo di colmare il gap con i miei coetanei”, racconta Caceres. Il quale a dire il vero, dopo il passaggio al Pellicano di Porto Ercole, sarebbe sbarcato volentieri a Londra, non ci fosse stato l’11 settembre e tutto quel che ne è seguito. Invece eccolo ripiegare su Castel Guelfo, per la precisione sulla Locanda Solarola, dove una smagliante Antonella Scardovi lavorava alla sua “alta cucina di casa” con l’ausilio di un manipolo di cuochi professionisti. L’occasione per sperimentare a tutto campo, acquisendo nell’arco di due anni la forma mentis di uno chef a tutto tondo. “Il lavoro sul prodotto, dall’orto alle galline livornesi, teneva testa all’approfondimento storico: Scappi, Artusi, Cantarelli, Paracucchi…”
Nel Lazio Caceres approda nel 2009-2010, quale chef di Pipero ad Albano. Ha così modo di familiarizzare da una postazione privilegiata con produttori e clientela locali, in modo da preparare l’ultima metamorfosi in chef patron. Il locale è praticamente già pronto: un’unica sala con spazio sopraelevato per gli eventi e 35 coperti, le pareti figurate e la cucina sotterranea, ben equipaggiata (roner, azoto, brace, pietre laviche per il pane) ma quasi priva di celle, data la vicinanza al mercato. Per la stella basta un anno, per la conferma un semplice cambio di calendario.
I Piatti
Nel piatto i fiori di campo di un metissaggio globale, a cominciare dalle reminescenze del nonno di origine siriana, che da piccolo gli faceva assaggiare la carne cruda macinata a mano e sapientemente condita da friggere con il bulghur e l’hummus di ceci. Passando per la nostalgia latina (che è già nostalgia di un sincretismo), le reminescenze della Sardegna (la fregola in brodo affumicato di crostacei e granchio) e dell’Emilia Romagna (il dessert di pere in osmosi all’anice con crema gelata di squacquerone e Parmigiano, oggi evoluto in voragine con salvia, nocciole e cioccolato fuso dal cameriere al tavolo).
Il sous-chef svedese John Regefalk, ex del Ryugin, ha dato un altro giro al mappamondo. Vedi l’anguilla (di Comacchio) cotta allo spiedo e laccata alla maniera giapponese, spiazzata dal sorbetto di carpione con guarnizione di farro ad asciugare la succulenza. Ma ogni cuoco può partecipare alla creazione del menu, avanzando le proprie proposte nel quadro di un brainstorming che si svolge il sabato sera. E la brigata è internazionale, con il fratello Diego, già pasticciere alla Solarola, ad innalzare il tasso di latinità.
“La mia cucina è italiana”, puntualizza lo chef. “Ma nemmeno io sono a km 0. Arrivando ho pensato di scegliere un’icona della romanità e guardarla da lontano. Roma è sinonimo di carbonara. Ma perché piace a tutti? Per la cremosità. Ho estrapolato questa caratteristica e ne ho fatto il soggetto del piatto, composto di uovo a bassa temperatura, spuma di Parmigiano e pecorino, guanciale di cinta senese e pasta soffiata per la parte croccante. Stessa sorte dei carciofi alla matticella, scomposti in diverse cotture”.
La libertà spariglia i 3 menu (il vegetariano Né carne né pesce, Gustando i classici e Assaporando, 9 portate a mano libera): quella dell’autodidatta totale e anche quella del globetrotter con lo zaino pesante sulle spalle. Il Sudamerica è innanzitutto coraggio di osare: acidità assassine (il ceviche di capesante e cannolicchi) e gesti primordiali (la foglia di grano, in realtà bieta su una sfoglia farcita al tonno crudo, a mo’ di sincronizada; a condirla anche scorzette di limone impregnate sottovuoto di succo per 3 mesi, al fine di riprodurre l’agrume totale).
Si può cominciare con l’ostrica al latte di mandorle fermentato, studio sull’eleganza acida in sinergia con la sapidità, che introduce a una cucina naïve e quasi incantata. E proseguire con i bottoni, ravioli ripieni per una volta di burro e non di olio. Il grasso, salato e di origine irlandese, viene addensato alla pectina; dentro il suo involucro di pasta è quindi servito in un brodo di Parmigiano preparato in pentola a pressione, con una spolverata di tartufo bianco. Un piatto quanto mai essenzialista, che sfronda l’esuberanza dominante. Oppure con i ravioli liquidi di zuppa di pesce, serviti con il pesce all’esterno, rigorosamente crudo.
Fra i secondi un piccione viaggiatore, la cui ispirazione è uscita dai bagagli di Diego, carichi di sapori messicani dopo le vacanze estive. Viene cotto e servito nella foglia di mais dei tamales, con una crema alla base di mais giallo e bianco dolciastra, che ricorda l’uovo, e una manciata di mirtilli all’aceto, mentre il petto è glassato ai funghi. Completano il piatto cialde soffiate di mais nero con huitlacoche che evocano la pannocchia e una grattata di tartufo bianco, cosicché in bocca si ricompone a sorpresa un classico italiano (le uova al tuber magnatum pico).
Lo stesso gioco, in fondo, della spalla di agnello arrostita, rosolata e leggermente affumicata, che viene servita con un mole di peperoncino ancho tostato, frutta secca, pomodoro verde e rosso; salsa di yogurt,avocado, menta e cipollotto. A parte anche una misticanza ai semi di salvia in funzione emulsionante per lo stacco aromatico. Un’istituzione romana portata a pascolare lontano.
Fra i dessert la sfoglia di mela gluten free a serpentina, farcita di spuma di mela con pinoli, sorbetto di pinoli, gel all’aceto di mele, fiori di gelsomino ed erbe anisate. Sempre curate le presentazioni, anche grazie ai supporti in legno realizzati da diversi falegnami. A breve il ristorante acquisirà un orto per la coltivazione delle erbe aromatiche.
La cantina, curata dall’impeccabile Paolo Abballe, già in forze da Trimani, conta 400 etichette, compreso qualche sorso di nuovo mondo e una buona selezione di naturali. “La cucina di Roy è molto fresca e aromatica, grazie all’uso delle erbe. Cerco di valorizzarla attraverso vini altrettanto freschi e minerali, soprattutto bianchi e rossi a scarsità antocianina. Perché anche il bicchiere con il suo cromatismo entra a far parte dell’estetica del piatto”.
Le fotografie sono di Andrea Di Lorenzo
Il sito web di Andrea Di Lorenzo
Le fotografie di Roy Caceres, dell’anguilla e la carbonara sono di Pietro Pio Pitzalis
Indirizzo
Ristorante MetamorfosiVia Giovanni Antonelli, 30/32 - 00197 Roma