Da oltre dieci anni radici ben piantate nel velluto della Riviera: è la Magnolia di Alberto Faccani, fiore all’occhiello della giovane cucina romagnola.
La Storia
La storia di Alberto Faccani
Esotica, inebriante, sempreverde: la cucina di Alberto Faccani non smette di fiorire sul marciapiede di Viale Trento a Cesenatico. Da quando nel 2003 a gettarne i semi fu un autodidatta pressoché totale, incantato dai gesti e dai profumi che le nonne Ada e Filippa spargevano sui fornelli di casa: “Fin dall’età di 5 anni mi sono sentito irresistibilmente attratto da questo mondo: la zuppa imperiale su tutto, visto che sono nato a Bologna e cresciuto a Ravenna”.
Non sono valse a molto le pressioni di mamma Maria Luisa e papà Gianni affinché scendesse a più miti consigli, sedendo diligentemente ai banchi di ragioneria. Appena riposta la cartella degli studi, terminati con successo e risultati assai utili per orientarsi al buio di questi chiari di luna, la vocazione gli ha preso imperiosamente la mano e l’ha condotto seco presso i grandi chef. Decisive sono risultate soprattutto le esperienze compiute alla Frasca di Castrocaro, per una rilettura della tradizione, alla Pernice e la Gallina di Bologna, al Sole di Trebbo di Reno e soprattutto all’Enoteca Pinchiorri, già sottoposta alla diarchia di Italo Bassi e Riccardo Monco. Una location gourmet ma internazionale, che ha scassinato il suo talento come un apri-ostriche alle influenze globali.

Ma Alberto Faccani è un cuoco curioso, che non smette di infilare le ginocchia sotto i tavoli più prestigiosi del mondo, in cerca di formazione e di confronto. Parigi, la Scandinavia, i Paesi Baschi e il resto della Spagna. Fra i suoi punti di riferimento anche Ferran Adrià: “Ineludibile per la bomba che ha sganciato sulla cucina classica. Praticamente un putsch. Dal 2005 al 2010 mi sono recato al Bulli ogni anno, talvolta anche due volte”.


Dalla fondazione nel 2003 il bel locale ha cambiato vesti più volte, seguendo gli umori e le evoluzioni della cucina: stellato dal 2005, nel 2007 ha traslocato dentro la sede attuale. “Nel 2009 mi sono recato per la prima volta al Noma e sono rimasto affascinato dalla mise en place minimal, senza tovaglia. Ho deciso di imitarla, due mesi dopo le Calandre. Quindi ho investito sui piani tavolo e sull’illuminazione al LED per ogni singola postazione, con un effetto palcoscenico e un impatto ridotto sull’ambiente. Ma qualche mese fa mi sono accorto che era diventato un cliché e sono tornato al tovagliato. Ogni anno tengo da parte una fetta degli utili e li reinvesto nel locale: nel 2014 è stata la volta dei laboratori sotto il ristorante, dove ha sede la scuola di cucina, e di tante altre cose. Le celle frigo, la piastrellatura, le nuove poltroncine in pelle…”
I Piatti


Un involucro pulito per piatti senza orpelli. Sfogliare la corolla del menu significa passare in rassegna suggestioni globali, talvolta persino capricciose, sempre armonizzate dal rigore e dalla tecnica della grande cucina. Conformemente agli auspici di Toulouse-Lautrec, quando vagheggiava “cuochi senza pregiudizi e anarchici che, nella composizione del piatto, riconoscano solo le leggi dell’equilibrio, dettate dalla natura”. Si comincia con il carosello degli appetizer: la gelatina di rapa rossa con panna acida e lampone, inno nordico all’acidità; le chips di polenta e alghe con maionese di ostrica; la deliziosa sfera croccante di salmone e carota, avvisaglia di una tendenza al metissaggio poi ricorrente in carta.
“Mi sono ispirato a una tecnica del Geranium, ristorante di Copenhagen, con una meringa asciugata al contrario, effetto lucido, carota fermentata e salmone”. Un gusto nordico che sconfina in Asia, come spesso accade quando i lattobacilli scompaginano le fisionomie note. A seguirla la briochina thai, sorta di bignè al vapore in stile Roca ripieno di maionese al tartufo, che reinterpreta con guizzo spiazzante il grande classico della stagione: l’uovo al tartufo. E l’airbag alla tapenade, strega farcita di crema provenzale, sotto la cui protezione la vettura gastronomica punta risolutamente in direzione Mediterraneo.

Il territorio è soprattutto meroir, cioè pescato. Cominciando dalle mazzancolle battute a crudo con centrifugato di carota, zenzero, coriandolo e frutto della passione, imprevisto lampo acido che flasha il pasto a seguire, in stile ceviche, non senza rimembranze di un azzardo loprioresco (il monocromo di scampi con centrifugato di carota e aromi), cui la nuova preparazione regala una diversa piacevolezza evitando lo stridio fra liquidità e superfici scivolose.
E poi l’ironico “cocktail” di gamberi croccanti, appena sbollentati, serviti con polvere di lamponi (perché la frutta è acidità naturale, come l’erba può sgrassare), al posto della maionese un condimento di teste per la mineralità, riduzione di arancia e Cognac a crudo, invece dell’insalata le coste a bastoncino, testura e acquosità. Da passare nella salsa con le pinze per un dosaggio al milligrammo che non violi l’integrità dell’ingrediente.

Il talento di Faccani esce a nudo in un piatto che più spoglio non si può. La zucca su latte fermentato con caviale, polvere di alghe e nasturzio. Ripescaggio del classico matrimonio di caviale e panna acida (immancabile guarnizione dei blinis), con l’ortaggio per la pastosità e le alghe a tessere il filo del piatto fra la componente ittica e quella erbacea/vegetale. Dove il lattico esalta la sensazione marina, l’acidità il minerale. Impeccabile la cottura del polpo, sbattuto per intenerire le fibre, arricciato in acqua bollente per 5 secondi, poi cotto a secco per 50 minuti e piastrato. Né gommoso né filaccioso, né coriaceo né privo di nerbo. Servito con emulsione di cozze e cavolfiore crudo in polvere a mo’ di couscous in stile Adrià.

Il banco di prova però sono le paste secche. In questo caso gli Spaghetti Verrigni mantecati all’olio di limone con crema di mandorle siciliane dolci e amare (ottenuta al Pacojet frullando i semi ammollati e congelati, fino a ottenere una ricca “panna”) e ricci di mare. Piatto per la prima volta intenzionalmente squilibrato, praticamente un tuffo nelle profondità dell’amaro.

Cucina astratta, ma anche cucina della memoria e finalmente territorio. Perché, come ha scritto qualcuno, “la partenza è una lontana profezia del ritorno; la partenza è un ritorno ante litteram, un ritorno anticipato, sorpreso già nell’atto del suo primo cominciamento”. Si compie manco a dirlo nel comparto uterino delle paste ripiene, sotto forma di Cappe/telli, crasi di cappelletto e passatello, dove la forma è quella della sfoglia ripiegata (chiusa in realtà ad agnolotto per raccogliere meglio la farcia) e il ripieno si compone di passatelli cotti e frullati fino a ottenere una crema fluida, che può ricordare gli anolini parmensi.
Per condimento un’emulsione di vongole spumeggiante come una salsa montata al burro (ottenuta in realtà con olio extravergine e farina di tapioca) e una grattata di mandarino per spiazzare. Romagna non al secondo, ma al terzo grado. Un cubo dai lati perfettamente equivalenti, perché la ripetizione è rafforzamento del messaggio.


Dopo l’intermezzo dell’ostrica appena sbollentata, per rassodare una polpa altrimenti scivolosa, con zenzero marinato e mela verde, è la volta della sogliola, passata a bassa temperatura e poi sulla brace, rinfrescata da agrumi e finocchio secondo un rassicurante accostamento della memoria. Finale tutto per la frutta: il sorbetto di pera con rabarbaro, verbena, lamponi e mandorle come il tropico d’inverno, tripudio esotico sparpagliato attorno al sorbetto di cocco. La nostalgia di un’altrove caldo, vagheggiato da lontano.
Sempre acuta l’attenzione per i supporti, abbinati in base a considerazioni cromatiche o di tattilità; scorrevole il gusto, pazientemente rifinito con una lima avanguardista, spagnola, scandinava, nostrana, eppure classico nella levigatezza, secondo lo stile dell’amico Andrea Berton. Giacché classicità è innanzitutto attenuazione dei mezzi espressivi, come ben sanno i critici letterari. È il velluto carnoso della magnolia.


La cantina, impostata dallo stesso Faccani e seguita dal sommelier Andrea Fiorini, già al fianco di Fabrizio Mantovani, conta fra le migliori della Romagna con le sue 400 referenze: tanto territorio e soprattutto grande Francia, principalmente Borgogna. Ma anche una buona selezione di vini naturali, per una “questione etica: vedo che la gente quando fa la spesa compra sempre più prodotti scadenti, ed è giusto almeno al ristorante offrirle qualità e salute, senza eccessi”. Il menu degustazione di 6 portate costa 65 euro, quello di 8 portate 85 (con abbinamenti rispettivamente 120 e 85).
Indirizzo
Magnolia RistoranteViale Trento, 31 - 47042 Cesenatico (FC)