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Verde apuano: la svolta di Luca Landi

di:
Alessandra Meldolesi
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Scarponi da trekking e zaino in spalla: la cucina di Luca Landi è ripartita dalle Alpi Apuane in questa primavera 2015. Foraging, crudismo e terroir a complemento di una tecnica enciclopedica, fra le più complete d’Italia.

La Storia

La storia di Luca Landi


Il sapore delle Alpi Apuane: sapido, amarotico, talvolta acidulo, balsamico o anisato; stemperato dalla bomba d’acqua delle foglie grasse, oppure gelatinoso, vellulato, croccante; effimero o tenace. Per le venature delle pietre che fiancheggiano le cave di marmo, si insinua un altro giacimento in cui affondare le mani: quello di un bouquet di fiori ed erbe spontanee con il quale nessuno, finora, aveva pensato di ammobiliare la sua cucina. Finché Luca Landi non ha allacciato le scarpe da trekking per inerpicarsi fuori dal Lunasia, ristorante stellato sul lungomare di Tirrenia, nella cintura sabbiosa di Pisa.


La cornice è quella di una scuola di arti e mestieri di proprietà della chiesa, risalente agli anni ’20 e recuperata dal gruppo Soft Living Places di Salvatore Madonna, che nel 2000 ne ha ricavato il Green Park Resort, struttura ricettiva con centro congressi, ristorante di cucina toscana Le Ginestre e dal 2005 il gastronomico Lunasia, costruito ex novo su una planimetria ovale, tagliata a tre quarti dalla zona cottura in modo da ricostruire la sagoma di Azzurra. Landi vi è saltato sopra fin dall’abbrivio, nel mezzo di una formazione che non si è ancora arrestata. “Un nonno fornaio, l’altro figurinaio (come in Lucchesia si chiamano gli artigiani che fanno le statuine di gesso), ho scelto la cucina da subito, per il culto provinciale della tavola che si respirava in casa tutti i giorni.


Ed è stato all’Alberghiero che mi sono imbattuto nel mio maestro: Angelo Paracucchi, che per i suoi banchetti, in accordo con i professori, chiamava a collaborare noi studenti. Nel suo ristorante di Ameglia, che distava 5 chilometri da scuola, ho lavorato anche in maggio e giugno per un paio d’anni”.


“Di Paracucchi ricordo soprattutto la passione: era un pozzo di scienza con l’entusiasmo di un ragazzino. Nei primi anni una figura paterna, poi quasi un nonno. Sempre impegnatissimo ma con ritmi tutti suoi: prima la pasta, che faceva di persona, poi il riposino. E non si arrabbiava mai. Dopo la Svizzera, il Grand Hotel di Firenze e la Closerie des Lilas, l’ho ritrovato al Carpaccio di Parigi, dove passava proprio come un nonno, a raccontare storie e dispensare consigli. Mi ha trasmesso il suo modo di leggere l’ingrediente come un insieme di molecole, di procedere quindi appaiando alle valutazioni gustative quelle chimiche. Tecnicamente analizzava le componenti, quindi fibre, zucchero, proteine, per poi calcolare con precisione percentuali e temperature già negli anni ‘80. Un pioniere”.


“Mi è rimasta anche la lampada, che è un pretesto per ricordarlo. È stato lui a teorizzare il contrasto dolce/salato, il contrasto caldo/freddo, il vino rosso sul pesce, l’olio di oliva nella mantecatura dei primi, quando in giro di vedeva di tutto, il burro con le vongole, le salse addensate alla maizena. Mentre la nouvelle cuisine veniva recepita male, adottando ingredienti estranei o riducendo eccessivamente le porzioni, lui ne ha mutuato le tecniche, per esempio il mixer, ma con una considerazione scientifica delle temperature. Conservo ancora le ricette che eseguivamo al Carpaccio, i testi dei suoi corsi e altri materiali che mi ha passato la famiglia. La pasta dei ravioli e delle tagliatelle del Lunasia è ancora sua, come la tecnica di mantecatura, le marmellate, alcune tipologie di contrasti, vedi l’uso della frutta negli antipasti salati”.


E ancora la grandeur dell’Enoteca Pinchiorri, i pomeriggi spesi a studiare la storia della cucina alla Biblioteca Nazionale di Firenze e la diversa perfezione del Louis XV di Alain Ducasse; nelle pause del Green Park Resort la Spagna ruggente, in cerca di un’“emotività che stuzzicasse” al Celler de Can Roca o da Alkimia. Nel 2005, quando già manda avanti Le Ginestre, arriva il giocattolo Lunasia, di cui segue la progettazione e la realizzazione per poter finalmente servire la sua cucina, premiata nel 2012 dalla stella Michelin. “Ma sentivo che mi mancava qualcosa”, racconta. “Avevo esplorato in profondità gli ingredienti animali, sia di mare che di terra, trascurando un po’ il vegetale, specialmente nei suoi utilizzi a crudo, nonostante il mio background contadino. Perché sono uno che sa come tenere un orto e con mia nonna andavo a raccogliere le erbe di campo. A casa ho 14 bonsai”.


La nave del Lunasia punta quindi in direzione Apuane: “La prima cosa che ho fatto è stato andare in montagna a brucare con un amico omeopata munito di patentino, Marco Pardini, che è capace di leggere le erbe dal punto di vista storico, magico, alimentare, salutistico. Ho ritrovato gli stessi ‘erbucci’ che mia nonna Teresa consumava stufati o in minestra, ed ero l’unico bambino che li mangiava volentieri. Io e Marco siamo andati diverse volte e alla fine dell’inverno abbiamo riportato parecchi pani di terra con le loro erbe, che abbiamo trapiantato dietro al ristorante, senza nessuna concimazione. A dimora adesso ci sono 45 varietà: assenzio, elicrisio, finocchio selvatico, pervinca, borragine, zafferanone, stevia, nasturzio, melissa… Siccome sono un cuoco riflessivo, uso le foglie secondo il loro gusto e la loro consistenza, con un lavoro di rilettura dell’espressione gastronomica del piatto; talvolta da sole, talaltra in un mix. Allo stesso modo in cui il gelato, di cui ho vinto il campionato mondiale nel 2009, viene sempre introdotto con criterio. Poi ci sono le erbe che raccolgo a Casoli o nei punti più selvaggi del resort, come oxalis, tarassaco, primule; in itinere anche un orto da allestire dentro il perimetro della struttura”.


La seconda scossa verde è caduta pochi mesi fa al Mirazur di Menton, durante uno stage con Mauro Colagreco: “Secondo me, la cucina meno francese di tutta la Francia. Mediterranea nei sapori, latina nell’atmosfera, poliglotta nella comunicazione. Mi è sembrato il luogo ideale per studiare l’espressione delle verdure, che lo chef fa cogliere nel suo giardino. Partendo avevo lasciato qualche lacuna da colmare, per mettere a frutto un’esperienza ancora fresca, traducendola in un terroir diverso. Alla carta, con i piatti articolati per cui sono conosciuto, si è così affiancato un menu degustazione ben diverso, con ricette snelle e un numero di ingredienti inferiore. Come sempre, le carni e le uova di Michelangelo Masoni, tranne anatra, piccione e foie gras d’Oltralpe, e il pesce dell’asta di San Vincenzo, con l’eccezione delle conchiglie che arrivano dalla Sardegna e delle ostriche francesi”.

 

I Piatti



Si comincia con l’aperitivo, che traduce gli elementi buddisti, con i sapori loro associati, in appetizer serviti sopra supporti a tema, concepiti e costruiti da Landi: per l’acqua (salato) la granita di mare e ostriche, per il metallo (acre) il pesce azzurro marinato e yogurt, per il fuoco (amaro) la salsiccia di tonno al barbecue, per il legno (acido) il biscotto di cozze in scapece, per la terra (dolce) il gelato di aji amarillo e gambero con radici. Ma è la Provocazione dell’orto ed il crudo di mare a dare inizio all’escursione gustativa nelle Apuane: alla base un’insalata con foglie diverse (oxalis per la dolcezza, dente di tigre e di leone per l’amaro, ombelico di venere per la carnosità, pimpinella per la freschezza, senape per il piccante), carote di vari colori, sedano, finocchio, barbabietola condita con olio e sale, più due gelatine allo zenzero di carota e mela verde. Sulla scala in zinco, scelto per la flessibilità e la neutralità a freddo, un climax di acidità sopra diversi bocconi di pesce crudo: palamita con gel di pomodoro, branzino con gel di limone, scampo con gel di aceto, seppia in ceviche; a parte anche un canestrello con gelato di cipolle e crema di ortiche, che esaltano dolcezza e sapidità. Nelle intenzioni dello chef, la presentazione degli ingredienti che verranno riproposti in forma elaborata durante il pasto, integri e crudi: una sorta di proemio che tira le fila della narrazione a seguire.


La triglia arrostita alle olive e fegato grasso è un piatto del 2003, che si rifà alla tecnica di impanatura ideata nel ’98 da Ferran Adrià per sarde e acciughe, con due fettine sottilissime di pane fatte aderire al pesce sfruttando la sua stessa umidità. Sul piatto con olive candite e in salamoia, il foie spadellato, aria di finocchio e kumquat, salsa delle lische per azzerare lo scarto, in un tripudio di gusto mediterraneo a contrasto con il feticcio francese.


Squisiti i tagliolini ai ricci, ottenuti da un impasto duro composto di pochissime uova e una miscela di farine integrali (orzo, grano, farro, riso), secondo gli insegnamenti di Angelo Paracucchi, massimo interprete dell’icona italiana di sempre. Testura e nerbo, quindi, un gusto complesso di frutta secca e una struttura rough che scartavetra la cremosità dei ricci, pescati a Livorno. Con le mandorle per il croccante e gli aromi, la menta che sgrassa per via balsamica, la polvere di aglio nero fermentato in casa per la nota di liquirizia, nuovamente rinfrescante, e soprattutto per l’umami che fa volare tutto il piatto.


È un bollito non bollito, quello di Landi, che serve il pescato della costa al vapore di alghe e agrumi, con testure di carattere e perfino croccanti. Un piatto insolitamente puristico, che sembrerebbe uscito dalle mani di un altro chef: occorrerà tempo, prima che la scossa verde con il suo sciame minuto si assesti generando un nuovo equilibrio. Sul piatto vongole veraci autentiche e cozze selvagge sarde, mazzancolle, gallinella, scorfano, nasello, seppioline e un delizioso tartufo di mare accompagnati da verdure cotte in acqua di mare; per condimento olio e sale su richiesta, maionese di canapa e burro di olio di yuzu, agrume giapponese leggermente sapido. La sporzionatura avviene in sala dai cestelli di cottura, secondo la coreograficità della casa: “Preferisco cuocere il pesce con la lisca, perché la polpa si contrae meno e non si indurisce. Dovendo deliscare ho scelto il vapore perché è più delicato”.



Quale cerniera fra il salato e il dolce arriva in tavola il gelato di pinoli bio di San Rossore Grassini (la più antica ditta italiana), calibrato su basi chimiche secondo la dottrina che ha messo il trofeo nelle mani di Landi. Lo scortano uno zabaione sifonato al Vinsanto, vaporoso al punto da evocare con le sue uova una torta ai pinoli, crumble al pino, asparagina candita, fiori o foglie cristallizzate. Per chiudere Calore latino, budino di cioccolato con crema all’arancio, salsa di hibiscus per l’acidità, gelato al polline per la leggera sapidità e cedro candito. La cantina è di tutto rispetto, con 800 etichette che pescano a fondo nel tempo, soprattutto tra Champagne e supertuscans.


 

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

Indirizzo

Ristorante Lunasia c/o Green Park Resort Hotel

Via dei Tulipani 1 - 56018 Calambrone (Pisa)

Tel.+39 050 3135711

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+39 050 3135711



Mail: info@greenparkresort.com

http://www.softlivingplaces.com/hotel_green_park/ita/contatti_ristorante_lunasia.htm

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