Ristoranti di tendenza

L’avanguardia popolare di Errico Recanati

di:
Alessandra Meldolesi
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Nell’humus neorurale di Loreto attecchiscono suggestioni spagnole e tecniche contemporanee: un contrasto foriero di sensazioni sorprendenti.

La Storia

La storia del Ristorante Andreina


Starnazzano come dentro un’istallazione futurista, le galline di Andreina; ma la sorpresa è che esistono davvero, passato il vialetto che attraversa l’orto, un passo dopo l’altro sulle pietre bianche che fendono i filari di pomodoro e il verdeggiare basso delle insalate, tra i ciuffi di verbena e pimpinella, ossessioni olfattive dello chef.

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È anche questo Andreina: una parcella nella mappa neorurale della cucina italiana. E non da ieri, se è vero che a fondare il ristorante nel lontano ‘59 fu nonna Andreina, che riposa sopra i successi del nipote Errico, ma quando scende non manca di dare un giro allo spiedo e rimbrottare i cuochi. Il camino è ancora il focolare dei Numi e dei Lari, luogo della memoria e dell’identità. “Tutto è iniziato quando i cacciatori hanno chiesto a mia nonna di cucinare quanto avevano appena incarnierato. Si è improvvisata senza nessuna formazione e non ha più fermato la crescita di quella che è diventata una trattoria, consacrata alle tagliatelle al ragù e al piccione allo spiedo”.

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2-1 Locale
“Io tornavo da scuola e vedevo i piatti che viaggiavano attraverso la sala. All’inizio era qualcosa di naturale, la mia casa, poi è diventato amore puro. Ho iniziavo ad aiutare in sala, ho anche frequentato corsi da sommelier, ma sentivo che non era nelle mie corde, così sono passato in cucina. Senza una formazione professionale, visto che ho fatto agraria, tanto che oggi curo l’orto. Nel frattempo ho iniziato a frequentare ristoranti gastronomici e in me si è sviluppata naturalmente l’ambizione, senza mai abiurare le origini, anzi nella consapevolezza di quanto fosse necessario arricchirle di sapere e di lavoro”.

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Ai fumi di quelle braci Errico ha così esposto tagli scelti dell’avanguardia internazionale, prevalentemente spagnola. “Modernamente antico e anticamente moderno”, come scriveva Pietro Aretino di Giulio Romano; e come si può dire, senza esitare, del suo maestro Gianfranco Vissani, forse il primo a intuire quella tendenza alla rietnicizzazione che covava sotto la coltre delle demi-glace. “L’ho affiancato per un paio di mesi, ed è stata la mia prima esperienza importante tranne qualche corso all’Étoile. A quei tempi non sapevo neppure cosa fosse una giacca da cuoco, e siccome mi faceva impazzire prima di indossarla mi sono messo in discussione. Sono stato anche da Leeman e da Martin Dalsass, in Svizzera; poi ho mangiato da tanti colleghi, cercando sempre di aggiornarmi”. Vissani e Leemann, l’essenza della materia e l’essenza della natura, la ricerca sul territorio e le suggestioni globali. “Ricordo che di notte mi mettevo a provare i piatti di nascosto. Poi nel 2005 ho preso in mano la cucina e nel 2012 è arrivata la stella Michelin”.

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Faraona cotta sopra e sotto i carboni

“Come siamo intervenuti sulla brace? Per cominciare abbiamo selezionato legna di qualità: del faggio che facciamo arrivare da San Severino. E carni migliori come i piccioni, la cui cottura non è cambiata dai tempi di Andreina. Abbiamo studiato come modulare la temperatura in base alla pezzatura e al prodotto. Per esempio l’ostrica e lo sgombro richiedono un calore intenso; lo sgombro in particolare viene passato avvolto nella carta da forno che fa un effetto padella, croccantando l’esterno e salvaguardando la succulenza. I camini sono due, con un distanziometro che avvicina e allontana la brace. Perché non è come un forno: bisogna sempre che un addetto sia presente per sorvegliare, dare e togliere fuoco. Poi abbiamo lavorato sulle cotture sotto la cenere e affumicate: le classiche patate, ma anche sedano rapa, porro, cosce di faraona farcite, moscioli e fegato grasso in doppia cottura”.

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Baccalà cotto sotto la cenere

Il risultato è una cucina affabile che concilia il magistero vissaniano con l’altro barocco spagnolo, e quest’ultimo con la vertiginosa sperimentazione di Victor Arguinzoniz, che da Etxebarri gira le braci più hot del mondo. Un cortocircuito di ruralità e avanguardia che con un piccolo supplemento di coraggio e di nettezza, nel contrastare ingredienti e ispirazioni, può mandare in tilt il gourmet smaliziato. L’orto copre gran parte del fabbisogno; poi ci sono le carni marchigiane e l’olio prodotto con Valter Cestini da cultivar tenera ascolana: “Ci ho sempre creduto, anche quando mi davano del matto. Perché sembra un’oliva destinata al consumo da tavola e la resa non è vantaggiosa, invece l’olio spicca per freschezza e pulizia, con bellissimi profumi di erba”.

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I Piatti

I menu sono due: Errico, composto di piatti sperimentali, e Brace, interamente dedicato al camino, con antipasti, primi e secondi sempre diversi, rispettivamente a 80 e 70 euro. La carta dei vini, che conta oltre 350 etichette, è invece appannaggio della moglie Ramona Ragaini, la cui competenza riesce quasi a oscurare una bellezza ingombrante: “L’ho dedicata innanzitutto al territorio, con tanti Verdicchio e Rosso Conero; poi ho messo ciò che amo. Vini quindi che potessero sposare la cucina di Errico, compresi i grandi bianchi, persino sulla selvaggina, e i naturali, un mondo a parte che sta crescendo impetuosamente. Nelle Marche ci sono tanti giovani che stanno lavorando bene, su tutti Andrea Felici e Riccardo Baldi”.

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Si comincia con il carosello degli appetizer: il pomodoro ricostruito al tonno, l’intensa spugna di erbe di campo, la mela con prosciutto di anatra, il pomodoro e cocomero con uova di pesce, il leccalecca di pecorino di fossa e fava di cacao, in ultimo la “ciliegia” in trompe-l’oeil ripiena di foie gras con la nocciola tostata al posto del nocciolo, la burrata per evocare la panna e la saba per il territorio e l’acidità. Prima manifestazione di spagnolismi ricorrenti in carta.

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Segue il kit per l’oliva all’ascolana fai da te, composto di una pallina di carne cruda battuta al coltello, polvere di oliva asciugata in forno a 60 °C da spargere sopra e un crostino. Divertissement interattivo che ironizza su un’istituzione gastronomica, tanto ludico quanto gustoso nell’inversione di cottura e crudità, sotto e fuori, molto e poco.

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Guarda verso Etxebarri l’Ostrica si dà le arie di brace, niente meno che una Gillardeau intensamente affumicata ma non gommosa, riportata a sensazioni di mare dalla perla sferificata della sua acqua. Mentre lo sgombro ai carboni è servito con perle di aceto ai lamponi e purea di sedano rapa affumicato, “un ortaggio non perfettamente stagionale, che però mi consente di ottenere la giusta testura senza aggiunte, con un gusto più diretto anche di terra e di orto”.

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Pernice, patata soffiata e tartufo nero

Le animelle con ricci di mare interpolano le classiche animelle alla panna (utilizzata a crudo) con ispirazioni contemporanee (il rognone ai ricci di Cracco/Baronetto); in questo caso però le lingue intervengono per la sapidità, visto che le frattaglie sono scottate in acqua e limone, poi croccantate in padella con la scorza, come vuole la tradizione ma senza aggiunta di sale.

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Lo scampo insegue la lepre si compone di filetto spadellato e scaloppato alternato ai dolcissimi crostacei di Civitanova, appena passati in padella, con il burro delle teste quasi caramellato a fungere da trait-d’union fra i due elementi. Per guarnizione rapa rossa, uova di salmerino, leggermente affumicate per evocare la brace, basilico rosso e bietolina rossa.

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Mentre L’orto nasconde la caccia abbiglia di sembianze vegetali i selvatici, in un camouflage volto ad avvicinare i clienti meno avvezzi: la melanzana cotta sotto la brace, per cominciare, con la polpa a legare il ragù di starna e il picciolo che evoca il profilo di una beccaccia; il topinambur alla lepre; i friggitelli alla purea di faraona e la patata farcita di anatra. Con il fumo, ancora una volta, a cucire mondi distanti; sopra un letto di molliche di pane, per l’evocazione della terra e l’interpolazione con le classiche verdure al gratin.

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Raviolo liquido

Per primo i vincisgrassi, dove la sfoglia viene farcita di battuta cruda di scottona marchigiana e anatra, olio di ragù per l’effetto cottura, pomodori confit ripassati nello stesso grasso, in modo da mantenere aspetto e consistenza del pelato crudo, besciamella e frattaglie; prima di essere chiusa su se stessa, cosparsa di besciamella e Parmigiano e gratinata al cannello davanti al commensale. Fra il raviolo aperto e il reverse crudista, senza dimenticare lo spettacolo.

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Classico il Cartoccio di quaglia ripieno di fegato grasso in salsa di visciole, con il foie gras spadellato a parte, la quaglia ancora rosata e le visciole asciugate al sole e ridotte in salsa con l’umami della soia. “Sono una mia passione, ne abbiamo 9 piante e ne pianteremo a breve altre 9”.

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Per dessert il parfait di nocciole con sorbetto di piccoli frutti rossi (lampone, ribes, ciliegia, fragola), in equilibrio grasso/acido; quale piccola pasticceria la crème brûlée all’anice, la gelée di limoni di Amalfi con cappero candito, lo spumino al cioccolato, la cheesecake con glassa di lamponi, le tuiles di mandorle e nocciole, la panna cotta al frutto della passione.

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Tutte le fotografie sono di Emanuela Ercoli

 


Indirizzo

Ristorante Andreina

Via Buffolareccia - Loreto (AN)

Tel. +39 071 970124

Mail: info@ristoranteandreina.it

Il sito web del ristorante Andreina

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