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Il credo di Ki Kim, il più giovane chef in California: "Il 90% della cucina lo fa il prodotto”

di:
Elisa Erriu
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copertina ki kim

La riflessione sugli ingredienti è centrale nella cucina di Ki. Non un’adorazione sterile, ma una consapevolezza profonda: "Il 90% della cucina è la materia prima".

Lo chef

Ki non è un locale: è un sussurro intimo rivolto a soli dieci fortunati ospiti per volta. Una tavola per pochi, una cucina che racconta tutto. A orchestrare questa sinfonia di sapori e delicatezze è Ki Kim, giovane chef sudcoreano trapiantato negli Stati Uniti, fresco vincitore del prestigioso Young Chef Award 2025 assegnato dalla Guida MICHELIN California, in collaborazione con Sysco. Il suo piccolo scrigno culinario, Restaurant Ki, sembra galleggiare sospeso tra minimalismo zen e avanguardia occidentale, incastonato nella frenesia californiana come un haiku in una playlist pop. La sua è una cucina fatta di memorie, di gesti che diventano rituali, di ingredienti che non seguono la moda, ma il battito lento e profondo della terra. Una cucina identitaria, che affonda le radici nella Corea delle origini, ma germoglia libera, alimentata dalla curiosità di un giovane che ha scelto di abbandonare l’università per inseguire un istinto. "Avevo diciott'anni e una strana certezza: sapevo che sarei potuto diventare bravo in cucina", racconta lui stesso a Michelin, senza filtri né sovrastrutture.

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Il percorso che ha scolpito il talento di Ki è un mosaico internazionale fatto di determinazione e ostinazione. Dopo aver iniziato a cucinare in un all-you-can-eat di sushi, approda nella raffinata cucina giapponese di Nobu ad Aspen. Poi arriva la svolta: uno stage al Benu di San Francisco, fresco di terza stella MICHELIN, che lui stesso definisce un’esperienza "distruttiva e ricostruttiva". Un processo alchemico in cui il giovane cuoco viene frantumato per poi rinascere, con una visione nuova, più ampia. Ma la vera presa di coscienza arriva in Giappone, dove si illude di voler diventare maestro sushi. Solo per scoprire, immerso nei rituali di Shizuoka, che la sua strada è un'altra. "Sono coreano. E a un certo punto ho capito che volevo raccontare quella parte di me", confessa. Così la direzione cambia, e si fa più nitida: New York, Jungsik (tre stelle), Atomix (due stelle), e infine una parentesi da Blanca, per contaminarsi ancora un po’ con cucine diverse.

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Il risultato? Una cucina che non cerca l’applauso, ma l’emozione. Che si pone una sola domanda, ossessiva e sincera: che cos’è il buon cibo? "Alla fine, è quello che ti fa dire: wow, è buonissimo. È una reazione che nessuno può fingere", spiega lo chef con una lucidità disarmante. Tra i piatti che più rappresentano la sua filosofia spicca il gelato di lattuga grigliata con caviale e crema al Cheongju, un tributo surreale al barbecue coreano che mescola l’imprevisto con la tecnica. "Volevo un gelato vegetale da abbinare al caviale. La lattuga è il mio vegetale preferito. Durante un esperimento ho lasciato ridurre il Cheongju — un vino di riso tradizionale — e si è caramellato. Una meravigliosa coincidenza". È così che nascono i piatti più indimenticabili: per errore, o per gioco. Ma sempre con un pensiero dietro. La riflessione sugli ingredienti è centrale nella cucina di Ki. Non un’adorazione sterile, ma una consapevolezza profonda: "Il 90% della cucina è la materia prima", afferma. E per garantirsi il meglio, il team di Restaurant Ki si reca al mercato contadino tre volte a settimana. Vivere in California, dice, è un vantaggio: "dove ci sono buoni vini, ci sono buoni ingredienti. Significa che il clima è favorevole all’agricoltura". Una regola d’oro trasmessagli da Chef Hoyoung, maestro a Jungsik.

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Nel microcosmo raccolto del suo ristorante, ogni ingrediente viene scelto non solo per il gusto, ma anche per il suo impatto ambientale. L’obiettivo è un uso quasi zero-waste, grazie anche al formato ultra-intimo da dieci coperti: "Ci permette di essere selettivi, e di utilizzare tutto senza sprechi". Ma la storia di Ki Kim non è solo fatta di piatti e ingredienti eccellenti. È anche una lezione di resilienza. "Non pensavo di essere qualificato per aprire un ristorante. Ho fallito tante volte. Ma ogni giorno facevo un passo avanti, anche piccolo", racconta. Il suo primo locale è andato male. Ma il secondo è diventato un rifugio per chi cerca qualcosa di raro: la verità del sapore. Il suo messaggio ai giovani cuochi è limpido: non mollate. "Una volta che rinunci, è finita. Ma finché fai un passo, anche piccolo, non è ancora finita". E aggiunge un consiglio che oggi suona come una dichiarazione d’intenti: "viviamo in un’epoca in cui la compassione ha un valore enorme. Parlate con gli amici nei momenti difficili, non fate tutto da soli".

chef ki kim piatto 1
 

Restaurant Ki non è un locale da moda passeggera. È una capsula sensoriale in cui ogni dettaglio è pensato, ogni sapore è studiato per sorprendere senza gridare. È un tributo all’identità, alla tecnica, all’errore che diventa idea, al rigore che si fa carezza. Nel silenzio della sua cucina, Ki Kim cucina come se stesse scrivendo una lettera: personale, irripetibile, e con la speranza segreta che chi legge — o assaggia — riesca a capirlo davvero.

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