A Montiano, sui colli sopra Rimini, la cucina a coefficiente di rischio estremo di un giovane talento sposa abbinamenti non meno sorprendenti, per un’esperienza gustativa totale.
La Storia
La storia di Gianluca Gorini
“le tacte dans l’audace, c’est de savoir jusqu’on peut aller trop loin”, scriveva Cocteau ne Le coq et l’arlequin. Ed è la definizione perfetta per la cucina di un giovane talento, Gianluca Gorini, che “troppo lontano” sa spingersi senza esitazioni. Mantenendo salda quella padronanza dell’eccesso, che rappresenta il tratto distintivo della sua cucina. Sempre sicuro, a dispetto della giovane età, nel percorrere e guidare lungo audaci rollercoaster gustativi.
Chi già si è accomodato sulle poltroncine della sala bianca e bruna, con la vista panoramica che surfa morbidamente le colline fino al mare, serafica come sa esserlo solo la Romagna, può misurare la strada percorsa da quando ha acceso il primo fuoco sotto quel fourneau. Era l’8 marzo 2013 e l’esordio come chef grazie al patron Claudio Amadori. “Ma in cucina ho mosso letteralmente i primi passi, nella trattoria di mia zia e di mia mamma, Dalla Brunella a Pesaro. All’inizio servendo ai tavoli e prendendo le comande, poi mettendo le mani nella pasta dei passatelli o di quella che era la specialità della casa: lo gnocco di patate farcito col ripieno dei cappelletti. Ricordo anche i pomodori cotti dolcemente accanto alle braci, una bassa temperatura ante litteram che concentrava gli zuccheri; e ovviamente lo spiedo. Sapori che tuonavano”.
Dopo l’Alberghiero è la volta dello Scudiero di Pesaro e di Paolo Teverini, che per 4 anni lo prende sotto la sua ala protettrice, facendolo volare per il mondo, dalla Francia fino in Asia. E poi di Paolo Lopriore, che affianca per 4 anni alla Certosa di Maggiano: “Un’esperienza oltre ogni immaginazione, per lo studio e la dedizione al lavoro, il rigore e la concentrazione. È stato un vortice che mi ha risucchiato nel suo pensiero, anche se forse l’ho capito in ritardo. Come cadere in un tornado. Il semifreddo allo zucchero affumicato ha rappresentato il punto di non ritorno, con quel colore immacolato che smentiva le aspettative di ‘grigio’”. Per entremets lo stacco di un anno a Borgo San Felice, con Francesco Bracali nelle vesti di consulente.
E da Teverini, erede di una stirpe di trifolau, arriva la passione per il foraging: “È stato a Bagno di Romagna che mi sono innamorato del bosco; la mia compagna Sara praticamente ci vive e i suoi parenti mi hanno insegnato tante cose. Poi c’è Moreno Balzoni, che ogni tanto mi accompagna per stridoli e asparagi, trasmettendomi un sapere ancestrale. Così appena ho un po’ di tempo mi inoltro e faccio incetta di quel che trovo. Funghi, cortecce, bacche; la rosa canina, che matura in autunno, come il ginepro comune o rosso. Non sapevo cosa fosse e la nonna di Sara mi ha messo sulla strada, ricordando come un tempo venisse usato per gli arrosti. Ma io intervengo con tecniche contemporanee, per esempio l’estrazione, la decantazione o forme più soft di macerazione”.
Dalla Certosa arriva invece la pratica dell’orto, che viene curato dalla moglie di Claudio, Nicoletta. “Mi dà la possibilità di lavorare un prodotto vivo, che conosco intimamente. E di usufruire di tutte le sue componenti: oltre all’ortaggio i fiori e i germogli. Per le erbe mi avvalgo della collaborazione di Nicola Pizzi; ma qui in Romagna c’è un tessuto di artigiani che producono di tutto su piccola scala, come una volta. Piccole aziende che ci riforniscono di frutta e di animali da cortile, per esempio i piccioni, che svolazzano a 3 chilometri dal ristorante, e i conigli di un signore della zona. Non è stato facile convincerlo a non tenere i suoi animali nell’acqua per un giorno, perché a volte si tratta anche di trovare un punto di incontro fra culture differenti”.
I Piatti
Una sensibilità per il vegetale corroborata dall’esempio di Enrico Crippa, come testimoniano gli appetizer vegetali, che sembrano sradicati da Piazza Duomo, ma proseguono la filosofia gustativa di Lopriore. Nel punto esatto di intersezione fra i due storici rivali. Adagiati su un fazzoletto, a testimoniare come agnolotti la mancanza di condimento, si allineano la cialda croccante di porro con caprino, sesamo e rucola selvatica; il cuore di lollo verde con mostarda di mandarino e semi di zucca tostati (prima avvisaglia della passione per l’agrumato e della ricerca della sapidità negli ingredienti stessi, con un ricordo di italica zucca senapata); lo spinacino con bottarga e aceto affinato in anfora, incontro di mineralità esaltate dall’umami; la punta di cicoria con tartufo nero e funghi porcini, per un gusto amaro di terra; la zucchina farcita di squacquerone affumicato in panure al pepe verde, per un effetto gratinato a crudo. Gusti intensi stemperati dall’acquosità croccante dei vegetali, che invoglia al pasto.
Brevitas e pulizia gustativa, attraverso l’elisione di grassi e sale. Come nelle conchiglie sulla battigia, praline il cui guscio è composto di burro di cacao arricchito di polvere di carapaci e farcito di polpa di canocchia cruda al naturale, che grazie all’albumina monta fino a consistenza di mousse. Il gusto integro, salmastro del crostaceo, assai meno dolce che da cotto, è esaltato dalla julienne di alga nori, firma di Paolo Lopriore, dalla salsa di ricci di mare setacciati al naturale e dalla salicornia cruda e croccante; mentre quella che sembra alga fresca è in realtà lollo messa sottovuoto con acqua frizzante, fino ad apparire traslucida. Il colpo di nacchere di uno spagnolismo inatteso, destinato a non ricorrere lungo il pasto.
L’orto ritorna nel cetriolo, che viene marinato nel Varnelli, esca nostalgica dei marchigiani, un paio d’ore prima del servizio, per evitare che cuocia, e servito con i suoi germogli amari, un cetriolino baby e un fiore. Accompagna le uova di rombo elaborate in bottarga, “perché spesso i grossi pesci che utilizziamo ne sono pieni, ed è nostra responsabilità conservarle, salandole e affumicandole leggermente”. Vengono grattugiate al Microplane ottenendo batuffoli ariosi ma pieni, leggermente granulosi e adesivi, che richiamano la sensazione di un marzapane sgrassato dalla nota alcolica cruda. Completano il piatto l’estratto di anice verde che riprende gli aromi del liquore, il centrifugato di bucce di cetriolo amare e il caprino, che addolcisce i contrasti. Claudio Amadori ha scelto di bilanciare la sapidità comune ai due piatti con il residuo zuccherino di un Riesling della Mosella, per esempio l’ Auslese Zilliken 2010, annata del secolo.
Le seppioline sono servite sporche, secondo la tradizione dei pescatori, con una guarnizione di spinaci e senape nera. In modo meno estremo della Certosa, dove le interiora erano cosparse di nero e le polpe bianche riservate al personale, ma ugualmente intenso. La ratio della ricetta sta nella ferrosità che accomuna i tre ingredienti; mentre il piccante interviene a sventare la possibile assuefazione dovuta alle sensazioni amare, su suggerimento di Andrea Grignaffini, e l’aceto di Lambrusco ripulisce il palato. In abbinamento, per analogia questa volta, la birra Imperial Stout da 9 gradi del produttore norvegese Nøgne.
L’anguilla al fumo di brace è ormai un classico della casa: interpolazione della classica anguilla con l’insalata (ma liquida e di acetosella per un’acidità naturale) e del carpione attraverso elementi quali i pinoli e l’uvetta, macerata nel Pernod. D’estate paradossalmente acquista un gusto più amaro perché guarnita di cicoria, stridoli e portulaca. In abbinamento un cocktail della casa denominato Riviera Beat, composto di Varnelli, succo e scorza di pompelmo, Chartreuse che si aggancia ai richiami vegetali.
Il risotto alle vongole è esemplificativo della tendenza di Gorini a svolgere il comfort in uncomfort food, enucleando la carica ribelle della tradizione. Il riso viene mantecato aggiungendo gelato di lupini aperti classicamente, con aglio e vino bianco, sgusciati, congelati e pacossati. Lo choc termico favorisce lo sviluppo della carica aromatica mentre i chicchi montano senza bisogno di grassi, conservando un gusto puro. In finitura vongole selvagge crude, scintillanti di mineralità, semi di prezzemolo per il croccante e l’amaro più un tag di centrifugato spray delle foglie; alla base scorza di limone per la freschezza e nuovamente l’amaro. In abbinamento, per la mineralità, lo chardonnay dell’Etna vagamente borgognone di Guardiola, annata 2010.
Seguono, quale portata di riposo, i ravioli di scalogno liquido con caprino e cicoria, la cui farcia è costituita da scalogno cotto sottovuoto in purezza, passato alla Greenstar e addensato con agar-agar. Un piatto più semplice, cui Amadori abbina una bolla trentina per la giusta “vibrazione”.
L’animella, cotta alla francese nel burro nocciola ma senza sale, viene giustapposta a tre elementi vegetali in sinergia, che contrastano la sua dolcezza naturale: il tè verde tannico, che asciuga la grassezza, i capperi per la sapidità e la bietola per il supplemento minerale. In abbinamento nuovamente un Auslese, per il contrasto del residuo zuccherino sulle durezze.
Mentre il piccione rispolvera il ricordo delle braci nella trattoria famigliare, contaminate però con un classico doppio servizio alla francese in un cortocircuito di folklore e alta scuola: il volatile è infatti cotto allo spiedo ma il petto viene scalcato dopo pochi minuti, semicrudo, e tenuto in caldo. Per guarnizione spuma di cipolla ed estratto di alloro, quasi come nella ricetta di casa. Il servizio tuttavia è triplo, visto che seguono a ruota le rigaglie, rafforzate nella tendenza amara da scorza di arancia centrifugata e ginepro rosso, più fruttato e meno resinoso di quello comune, macerato nel gin e tritato. Sulla prima parte è ideale lo Syrah di Vigna Piezza; sul rondò finale il Vermut artigianale con scorza di arancia, per riprendere speziatura e agrumato.
Elegante il predessert, che sfrutta la tecnica della macerazione breve in acqua, zucchero e alcol per estrarre i profumi. Si tratta in questo caso dei fiori di sambuco, tipici della tradizione romagnola, elaborati in granita e della menta, sifonata con l’aggiunta di colla di pesce in una spuma leggera. L’agopuntura arriva dalle erbe in superficie: stridoli e rucola selvatica, amaro e piccante, con una spolverata di liquirizia per la freschezza balsamica.
Più classico il dessert vero e proprio, che estremizza in una sorta di caricatura i lineamenti di una foresta nera. Quindi ciliegie macerate a freddo nel rum, ancora una volta con l’alcol in evidenza, mousse di miele di tarassaco, pungente ed erbaceo, aria di verbena per la freschezza e cacao amaro. Un’altra tradizione disobbediente, che sembra aizzare i classici alla ribellione, fuori dal loro letto di Procuste.
Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi
Indirizzo
Ristorante Le GiareVia Al Castello, n.368 - 47020
Montenovo di Montiano (FC)
Tel.
+39 0547 51430
Mail: info@legiare.com
Il sito web del ristorante Le Giare