Ristoranti di tendenza

Frattale gourmet: al Mudec di Enrico Bartolini

di:
Alessandra Meldolesi
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Enrico Bartolini e la sua cucina d’autore che coniuga contemporaneità e agio, contaminazioni e comfort, centrando un’originale coincidenza fra orientalismo

La Storia

La Storia di Enrico Bartolini


Anche il Mudec di Enrico Bartolini ha aderito al progetto di eccellenza Michelin Days, il nuovo sistema di prenotazioni on line per pranzare o cenare nei prestigiosi ristoranti della guida Michelin. Scoprite qui le opportunità offerte per questo ristorante, bastano pochi click per registrarsi ed accedere a un mondo di offerte e vantaggi esclusivi.                              È stato sufficiente poco più di un anno, allo chef di Pescia, per centrare obiettivi ambiziosi, al limite dell’irrealtà: quattro stelle Michelin, di cui due from scratch al Mudec dopo l’addio al Devero, una al Casual di Bergamo e l’altra alla Trattoria dell’Andana, più la casa veneziana del Glam, gli spin-off di Hong Kong, Abu Dhabi e Dubai. Mentre già si prospettano nuove aperture, per quello che va somigliando sempre più a un giovane Ducasse italiano: l’ultima (per il momento) sarà al Fico di Bologna, dove firmerà la proposta del ristorante di punta nella Disneyland dei foodies dal mese di ottobre.

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Una simile clonazione, variata secondo i luoghi e la sensibilità dei resident chef, richiede la capacità di delegare. Al fianco di Bartolini da ormai 7 anni c’è Remo Capitaneo, qualcosa di più di un secondo, praticamente un executive, nato a Foggia e passato nell’arco di 6 anni per gli insegnamenti di Andrea Berton ed Enrico Crippa. “Qualsiasi cosa in qualsiasi ristorante passa per il nostro confronto e richiede una duplice approvazione”.

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La cucina di Bartolini resta ovunque quella di un battitore libero, per quanto non autodidatta: sul suo curriculum si leggono i nomi di Paolo Petrini a Parigi, Mark Page a Londra, soprattutto Massimiliano Alajmo, di cui è stato lungamente chef alla Montecchia. Sicuramente l’impronta più nitida, per quanto non decisiva: dal fuoriclasse di Rubano, forse il primo a sdoganare la gola in una gastronomia segnata dalla cerebralità marchesiana e dall’ossificazione avanguardista, più che tecniche o motivi arriva un approccio improntato alla piacevolezza, immediato e universalistico. “È stato lui a trasmettermi fortemente questo concetto: quando l’ho incontrato ero molto giovane ed è successo che gli avanzassi proposte che rifiutava, invitandomi a considerare il gusto prima di ogni altra cosa. Ma è una golosità meditata, che arriva da percorsi che si conoscono e si riescono a dominare. Cerco di far mangiare i miei piatti sempre così: con piacere”.

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Poi c’è l’influenza orientale, dovuta alle frequentazioni asiatiche. “Visito Hong Kong con regolarità da dieci anni e ho portato con me i profumi di Singapore e di Tokyo. Ma non voglio fare cucina asiatica in Italia: piuttosto ho trovato approcci che consentono riflessioni di golosità e nuovi stimoli al piacere, da interpretare con i nostri aromi per continuare a fare piatti italiani, entrando nel database del commensale. Le cucine arabe mi hanno colpito di meno, a parte forse il mondo delle spezie”.

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Il risultato è una convergenza parallela di classicità, anche paludata, e orientalismo, a cominciare dalla costruzione dei piatti e del menu, che adotta il modello del frattale, forma dell’estetica contemporanea secondo Severo Sarduy e Omar Calabrese. È stato per ritrovare una ricorrenza nel caos della morfologia naturale, dalle coste frastagliate ai polmoni, che Benoît Mandelbrot ha compiuto la sua “cosmesi della matematica”, scoprendo la formula di strutture dal tracciato frammentario, dove ogni parte reitera la figura del tutto (omotetia) nel gioco della riduzione di scala. Ed altrettanto omotetica è la sequenza delle portate, spesso articolate come micro menu composti di due o tre elementi, talvolta con un’evocazione di primo piatto al centro. Ordine nel disordine, o meglio nella complessità di una cucina globale e totale.

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Ne esce ovviamente alterato il disegno del menu, non più meccanicamente lineare. Soprattutto si verifica una coincidenza dei remoti fra doppi e tripli servizi alla francese e alla maniera orientale (vedi anatra alla pechinese), secondo uno schema che si ripete all’interno dei singoli piatti, frastagliati da motivi lontani. “Già prima del Mudec avevo tentato questa strada, ma solo ora la maturità professionale mi consente di mettere a fuoco l’insieme dei piatti con la giusta costanza nell’esecuzione. Anche perché la squadra è più affiatata e i tavoli sono appena 8. Quel che riceve l’ospite è una continua sorpresa, ma occorre disponibilità e generosità per non fermarsi dove l’occhio cade”.

I Piatti

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I piatti principali della carta sono tutti articolati, così come 4 entrate su 6, in modo da “costruire intorno a un tema un equilibrio”: l’ingrediente vi è protagonista indiscusso e nomina da solo la sequenza. Ricorrono anche nel menu Be Contemporary, che conta 7 passaggi a 160 euro più 110 euro per chi sceglie anche l’abbinamento vini; poi ci sono il vegetariano Green Taste, con 6 passaggi a 110 + 90 per i vini, e Be Classic, composto di 5 piatti firma al prezzo di 110 euro + 90 per i vini.

Invece le opportunità offerte per chi prenota con Michelin Days prevedono il menu Be Classic a 6 portate anziché 5 più l’aperitivo di benvenuto a 110 euro. Oppure il menu “Duemiladiciasette” a 8 portate compreso un piatto inedito a sorpresa cucinato secondo l’ispirazione dello chef, oltre a una bottiglia di Bellavista extra brut Riserva Vittorio Moretti 2008, per un costo totale di 200 euro.

Dalle alici in incontro di saor e carpione ai bottoni di olio e lime al sugo di cacciucco, fino al risotto alle rape rosse, fra le ricette più imitate della cucina italiana. Sono infatti strepitosi i primi piatti: i ravioli di arachidi toscane, ricci di mare e pollo ruspante, dalla geometria gustativa ortogonale, come il risotto Arlecchino, verticalizzato con la guarnizione alla base, su suggerimento di Gualtiero Marchesi, e la finitura al tavolo, per un’estetica cangiante.

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Attirano tuttavia l’attenzione i piatti composti, per esempio la ventresca di tonno. “I giapponesi l’hanno resa popolare, ma io l’ho assaggiata per la prima volta da Vissani, cotta lentamente sott’olio, fondente e con quella struttura di golosità che cercavo ovunque”. Viene preparata dai calamaretti in brodo di morone con mandorle fresche, mela e salicornia, “delizia iodata e quasi dolce, che evidenzia note del tonno nascoste dalla struttura opulenta”. La ventresca Belfagor è servita con semi di okra, fagioli di soia ricostruiti con purea di fagioli conditi, salse di mele e di pepe, per giocare sul tonno coi fagioli. Chiude l’involtino di calamaro, okra e alghe fritto. La struttura gustativa è tanto nitida quanto originale, per quanto ingentilita da un florilegio di dettagli che la rendono discreta: un confronto fra la testura untuosa del pesce e quella vischiosa del vegetale, spezzato dal piccante tutto toscano della spezia.

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Anche il caviale è protagonista di un tris. Si comincia con l’osietra imperial puro sale servito su finto uovo al cavolfiore e capasanta per la consistenza: l’uovo dello zar Robuchon, fra ricordi di Russia e matrimoni indissolubili. “La nostra tartina”. Poi il tagliolino ricchissimo con caviale royal, alghe, pinoli, salsa di pinoli e burro, match grasso-sapido al ricordo di Versilia, dalla sensazione di panna e caviale. E si conclude magistralmente con il sevruga, dalle note di acciuga, servito al naturale sul cucchiaino ma accompagnato da un “cocktail” di brodo di seppia e patate con foglia di sedano e vodka, secondo un altro matrimonio obbligato, per esaltare e ripulire. “Stiamo lavorando sui miscelati, soprattutto in pasticceria. Nella sezione Sweet Life ci sono tre cocktail alla mela, alla rapa rossa e stile piña colada, cui abbiniamo un piccolo dessert. Perché ci siamo resi conto che la cena ormai è l’inizio della serata e il cocktail inaugura l’atmosfera di lounge”.

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C’è anche il maialino iberico proposto in un triplo servizio, senza ricorso al sottovuoto. Per cominciare la splendida pancia cotta in tre brodi, alla maniera giapponese: prima in acqua di cottura appena profumata alle verdure per 4 ore, poi in un altro liquido dai diversi odori per lo stesso tempo, per finire in un brodo delicatamente speziato e alcolico, che si lascia consumare pian piano. Dove gli aromi sono stati rivisti in chiave italiana, anche grazie al radicchio e alla salsa verde. Soprattutto la consistenza lascia il segno: doppia, sopra di grasso, sotto di polpa, come in una cappella di fungo scivolosa e leggermente elastica, non senza il prezzemolo di rito.

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Seguono il carré confit nello strutto, come un’arista toscana, con la cotenna croccante, il suo fondo, la salsa al rafano, gli gnocchi di salsa all’amatriciana addensata senza amidi, e la spalla al forno, spolverizzata di caffè che sulla polpa crea un’illusione ironica di carbonizzazione, mentre bilancia con amaro e tostato la dolcezza della guarnizione di zucca all’arancia e la salsa di uvetta.

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Gli abbinamenti, su sollecitazione di Bartolini, puntano sull’eleganza, cifra della cucina, spaziando dagli outsider alle istituzioni. Se ne occupa Sébastien Ferrara, che non sempre opta per un bicchiere passepartout. Sulla ventresca per esempio inizia con uno Champagne blanc de noirs, per proseguire con Château Fonsalette, bianco del Rodano, magari 2004: sole ed eleganza. Mentre il caviale può partire da una denominazione altrettanto nobile, come un Puligny Montrachet Jean-Marc Boillot, preferibilmente il premier cru Les Combettes, non troppo vecchio, per poi lasciare il passo sul tagliolino al Riluce Bianco di Giorgio Mercandelli; calici vuoti sul brodo. Il maialino per finire: dapprima un Riesling secco della Mosella, poi una Barbera vinificata in bianco Fausto Andi, in chiusura il Brunello di Montalcino Stella di Campalto.

Indirizzo

Mudec

Ristorante Enrico Bartolini

Via Tortona 56 - 20144 Milano

Prenota la tua cena con Michelin Days

Tel. +39 02 84293701

Mail: ristorante@enricobartolini.net

Il sito web del ristorante

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