Un luogo unico, fra le vigne di dorona della famiglia Bisol a Mazzorbo. Qui Francesco Brutto, ha raccolto la sfida di una ristorazione a tutto tondo.
La Storia
La Storia del Ristorante Venissa
Ci sono luoghi che sono già narrazione, dove ogni dettaglio affabula al pari di Shahrazad. Per esempio le isole della laguna di Venezia, lontane dal trambusto turistico, con le loro ordinate casupole color confetteria e le attività artigianali che ancora tamburellano sul sottofondo sciabordante delle maree. La sede di quel mistero tranquillo che stregò Jean-Paul Sartre, sempre in attesa sull’altra sponda.
La riva in questo caso appartiene all’isola di Mazzorbo, nella parte più autentica della laguna, a pochi colpi di remi da Burano. Qualche passo, quando l’acqua non è alta, e a profilarsi sono il solitario campanile trecentesco di San Michele Arcangelo e le mura di Venissa, autentico clos adibito alla viticoltura da tempi non sospetti, con il suo sistema intelligente di drenaggio in peschiera che è perfino impossibile datare. “Un tempo Venezia era praticamente autarchica, c’erano filari persino in Piazza San Marco ed è per questo che si parla di ‘campielli’.
Fu la marea alta quasi due metri e lunga 22 ore del 1966 a segnare il suo abbandono a causa della distruzione dei vigneti”, racconta con trasporto Matteo Bisol, alla guida del complesso ristorativo completo di trattoria e camere. “Poi un giorno mio padre Gianluca si è intestardito: si è messo alla ricerca del vitigno autoctono della laguna, la dorona, della famiglia della garganega e dei trebbiani, ma più resistente all’acqua salata, che infiltra il suolo dopo pochi centimetri.
Ne ha scovate 80 piante dagli ultimi contadini, fra orticelli e conventi, e le ha ripiantate qui nel 2007, tanto che siamo gli unici a vinificarlo per il commercio”. Se ne occupa l’enologo Roberto Cipresso, che ha optato per la macerazione sulle bucce, atta a esaltare il colore dorato da cui origina il nome, e la maturazione in acciaio e vetro, per esaltare le caratteristiche uniche del terroir, la cui suggestiva sapidità riporta alla mente il mito dell’Etna.
Mentre il packaging altrettanto prezioso è opera di Giovanni Moretti, artista del vetro di Murano: per etichetta una foglia d’oro della famiglia Berta Battiloro fusa e poi incisa a mano, non meno dardeggiante di un mosaico bizantino.
Attorno all’edificio moderno del ristorante, fra i filari inerbiti e su per i fossi si insinuano le erbe spontanee: ne sono state censite 22 fra salicornia e acetosella, spinacino, aglio selvatico e finocchio di mare, oltre al lungo erbario sul confine con le opere d’arte contemporanee. Mentre qua e là a quadrettarsi sono nove orti coltivati da altrettanti pensionati, che riforniscono le celle frigo.
Manna da terra per cucine che si sono subito contraddistinte per un alto tasso di naturalismo, prima a opera di Antonia Klugmann, poi di una brigata di giovani professionisti che ne ha salvaguardato la stella, da quest’anno per le cure di Francesco Brutto e della resident chef Chiara Pavan. Coautori di una carta estremamente avanzata, come piace al patron Matteo Bisol. “Perché vogliamo distinguerci dall’offerta turistica anche di qualità in laguna. Venissa deve essere il luogo dove recarsi per un’esperienza speciale, in un contesto speciale”.
Per il geniale chef di Undicesimo Vineria a Treviso, passato per gli insegnamenti di Antonia Klugmann sempre al Venissa e di Piergiorgio Parini (“colui che mi ha insegnato tutto, da come lavare una pentola a come tagliare un ortaggio: gli devo soprattutto il pensiero”), è suonato il gong di un ristorante a tutto tondo, dotato di una brigata strutturata che dispone di ogni mezzo necessario. Così da superare l’one man show e confrontarsi con la creatività di altre due mani: quelle di Chiara Pavan, giovane cuoca dalla formazione classica, che ha conosciuto la cucina mentre studiava lettere e filosofia a Parigi e ha poi deciso di frequentare Alma e specializzarsi con Valeria Piccini e Anna Matscher. “Dopo aver mangiato a Treviso mi ha inviato il curriculum. Cercava un posto da commis ma dopo due giorni l’ho promossa executive: mi sono trovato subito bene per l’apertura mentale”. A coadiuvarla sono due bravissimi aiuti, Simone ai primi piatti e Francesca agli antipasti e ai dolci.
La presenza di Brutto è costante: con la barca impiega poco più di mezz’ora per fare su e giù, provvedendo anche agli approvvigionamenti dagli stessi fornitori di Undicesimo, in modo che il prodotto non soffra gli interminabili transiti in Laguna. Perché anche se non sembra, Treviso dista meno di piazza San Marco. Appena finito il servizio del pranzo e della cena accende il motore, carico di spesa e di qualche lavorazione; spesso trascorre la notte sull’isola ed è comunque fisso il sabato a pranzo, tutta la domenica e i giorni festivi. Mentre in corsa può scattare la videochiamata per eventuali fuori programma.
La carta cambia almeno una volta al mese, con qualche prestito da Treviso, un lavoro di squadra sull’updating dei vecchi piatti e una bacheca tappezzata di post-it con le idee volanti dei cuochi, da testare tutti insieme. Dal filone pariniano discendono la prodigiosa capacità di improvvisazione e la centralità del vegetale, che sia un’erba o un ortaggio stagionale, da cui prende forma il piatto attraverso l’associazione (ma non sempre) con l’elemento proteico.