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Il nuovo menu di Valeria Piccini, quando il gusto è femmina

di:
Alessandra Meldolesi
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A Montemerano la grande mère delle cuoche italiane, vestale dei sapori maremmani, continua a dar sfogo al suo talento contadino e irriverente: ecco i piatti dell’ultimo menu commentati in prima persona.

La Storia

La storia di Valeria Piccini


“une cuisinière, oui, une vraie, ronde, imposante, joviale, agréable, considérable, comme on aime à se représenter la femme à qui l’on confie l’honneur de sa table”: le parole con cui il principe dei gastronomi Curnonsky descriveva la leggendaria Mère Brazier, prima cuoca a raccogliere sei stelle Michelin nella Francia degli anni ‘30, calzano a pennello sul physique du rôle di Valeria Piccini. Cuoca a tutto tondo, che a Montemerano, nel far west della Maremma, propizia esperienze sensoriali senza pari.


Sorridente, gioviale, generosa, Valeria è la grande mère di tutte le cuoche italiane, da quando nel 1978 è entrata nell’osteria da Caino con il marito Maurizio Menichetti, grande esperto di vino, trasformandola in un santuario dell’alta cucina. Delle leggendarie Madri di Lione, cuoche che segnarono l’età dell’oro della cucina femminile, condivide il furore dell’autodidatta e la carica irriverente, che l’ha portata dal nulla a confrontarsi con i grandi. La libertà di una cucina aperta, che si sottrae alle ideologie; soprattutto il cortocircuito fra memoria gustativa e alta scuola, radici contadine e avanguardia. Come la Mère Brazier aveva badato ai maiali da piccola, Valeria è cresciuta nella profonda campagna. E sa disintegrare i cliché della cucina accademica con le scaglie affilate del passato: la pulizia dei ceci con la cenere, come si faceva una volta, o la caseificazione nei pentoloni sul fuoco.


“Ad aprile, quando si spegne il camino, raccolgo un sacco di cenere e lo stocco: ai ceci regala un sentore leggermente affumicato, gradevolissimo. Un sapore completamente diverso. Ma quel che mi manca di più della mia infanzia è la produzione del formaggio. Avevamo le pecore e ogni sera lo preparavamo. Tolto il pentolone dal fuoco e appoggiatolo a terra, il massimo era tuffare le mani nel liquido a 35-38 gradi per staccare un brano di pasta calda, che chiamavamo cuculo. Alla stessa temperatura del corpo umano. Se in cucina ci avanza del latte, è la prima cosa che faccio”.



Quante anticipazioni, nella cucina di Valeria, a cominciare dalla tendenza alla rietnicizzazione, che è diventata la regola dopo decenni spesi a imitare altre scuole. “Adesso si parla tanto di foraging, qualcosa di scontato per noi. Prima provvedeva mio padre, il quale forse era più bravo di me e Maurizio, che gli siamo succeduti con qualche aiuto. Carnieri da cui arrivano il corbezzolo che abbiniamo alla battuta o le bacche di mirto per il cinghiale. Abbiamo anche l’orto, che d’estate ci rende quasi autosufficienti, e gli ulivi”. Persino su singoli ingredienti, che adesso sono un tormentone gastronomico, Valeria è arrivata in anticipo: il baccalà e il piccione, per fare un paio di esempi, da sempre presenti nella case della zona e nella sua carta.


Negli ultimi anni la sua ricerca si è concentrata sul valore della leggerezza, intesa come parsimonia nell’utilizzo dei grassi e brevità delle cotture. È rarissimo il sottovuoto, “grande strumento per ottenere determinati risultati su alcuni prodotti, pessimo su altri, come il coniglio che riduce in pomata. Ogni tecnica va adottata solo se produce un plus”. Dal repertorio toscano, ormai esplorato nelle sue pieghe più riposte, il mestolo è affondato in altre tradizioni regionali, con inedite aperture verso nord e verso sud.



Da due anni è iniziata anche l’avventura del St. Regis di Firenze, hotel dove Valeria, in qualità di consulente, trascorre due giorni a settimana. Premiata da una stella lampo, la sua cucina, firmata anche dal giovane chef piemontese Michele Griglio, ha una impronta ecumenica, in ossequio alle regole dell’hôtellerie. Quindi più astice e meno quinto quarto, in un bel contrasto fra la cornice aristocratica del giardino d’inverno e una verve che resta comunque popolana.

I Piatti

Da Caino arrivano la trippa e il lampredotto, ingentilito rispetto al cibo di strada; ma le ricette sono per la maggior parte concepite in loco, per fornire la giusta motivazione alla brigata.

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Sfera liquida di Topinambur e Cannolino Fegatini e fiori di Rosmarino
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Caino resta tuttavia la creatura di Valeria, il cui ultimo menu, composto da 2 antipasti, 2 primi, 1 secondo e 1 dolce, celebra la transizione fra inverno e primavera. Per cominciare ci sono le animelle con spuma di cavolfiore. “Un piatto molto semplice, composto di animelle spurgate, pulite e croccantate in padella con olio di oliva, in modo che il cuore resti morbido, servite su una spuma calda di cavolfiore al sifone, ottenuta dai nostri ortaggi. Rappresentano il mio amore incondizionato per il quinto quarto, ancor più tipico in questa zona, dove la Toscana sfuma nel Lazio. Avendo la possibilità di acquistare e lavorare animali interi, dagli agnelli ai maiali, mi diverto ad affondarvi la lama e sezionarli in prima persona. Come si faceva in casa mia, dove si utilizzava ogni taglio dopo l’uccisione della bestia. E già con mia suocera, nei primi anni di Caino, abbracciavo i cosci di cinghiale e di vitello col coltello in mano. Non amo gli sprechi e i pezzi scelti della grande distribuzione. Queste animelle per esempio arrivano da manzette di razza maremmana dell’Aia della Colonna, azienda bio che ci fornisce anche i piccioni”.



A seguire baccalà, patate e cipollotto, sulla falsariga della ricetta maremmana: “La cialda del nostro pane a lievitazione naturale, tagliato sottile con l’affettatrice ed essiccato, nasconde il baccalà, per evocare una panatura/gratinatura che non c’è e innescare l’effetto sorpresa. Uso baccalà islandese e lo cuoco a 80 °C nella pellicola da cucina, che salvaguarda la succulenza senza schiacciare la polpa come farebbe il sottovuoto; nel piatto forma una specie di insalata con cipollotto, limone, capperi, olive e patate. Sopra la cialda un filo d’olio e una spolverata di polvere di cipolle bruciate. Al tavolo l’ospite rompe la cialda, quindi il cameriere versa il brodo caldo di bucce di patate arrosto, per evocare la patata cotta sotto la cenere”.


Il tagliolino giallo introduce lo studio del colore, che da qualche anno ispira le ricette di Valeria. Sulle orme di Goethe, secondo il quale “anche gustare lo si potrà. L’azzurro avrà un sapore alcalino, il rosso giallastro sarà acidulo. Tutte le manifestazioni delle sostanze sono affini”. In questo caso si tratta di un tagliolino giallo di zafferano con salsa cruda di pomodoro giallo al naturale, acqua di cannolicchi emulsionata all’olio, polvere di topinambur, brunoise di borragine per la nota iodata, semi di zucca tostati e cialde di riso fritto allo zafferano. In finitura qualche goccia di estrazione di carciofo per strutturare il gusto con un tocco amaro. “I prodotti dello stesso colore stanno bene insieme. Abbiamo già lavorato su questo concetto la scorsa estate, con un tagliolino verde a base di clorofilla di prezzemolo, vongole, salicornia, mandorle tostate e crema di friggitelli; prima ancora con una pasta rossa condita con peperoni, cozze e mais tostato”.


I tortelli dritto e rovescio, oppure prima e dopo, declinano in due varianti l’abbinamento di castagne e maiale. Prima c’è lo storico cavallo di battaglia di Valeria, cioè il tortello ripieno di cinta senese, servito in un brodo di castagne e rifinito da verdurine al Balsamico per l’acidità. Poi, come autoremake, la scodella con la sua inversione: tortelli ripieni di castagnaccio dolce-salato serviti in un brodo di stinco di cinta e osso di prosciutto, più una guarnizione di frutta secca, riduzione di pompelmo e pomodori secchi.


Il semicerchio nel piatto è quello perfetto del piccione, ingrediente feticcio di Valeria. “Le ricette cambiano ogni anno, perché è una carne che si presta a fissare tanti prodotti di stagione creando armonie sempre nuove. Lo cuocio intero su brace di legno di olivo la mattina, fuori dal ristorante, poi al momento del servizio lo spolverizzo di polvere di cipolla bruciata e lo inforno. Senza sottovuoto, perché è una carne da cuocere all’aria, come dico io. Il petto viene servito rosa, il coscio riempito di fegatini e arrostito in padella. Sul piatto quelli che io chiamo ‘toni di rosso’, proseguendo lo studio del colore, che qui richiama anche il sangue: cipolle rosse all’aceto di vino rosso, carote viola, foglie di barbabietola innervate di rosso, salsa di lamponi freschi e disidratati, per due diverse acidità. Ci sono anche la terrina di foie gras, abbinamento elettivo del volatile, e un goccio di fondo, che col caldo cede il passo a salse vegetali più fresche”.


“Volevamo lavorare sull’ossobuco, che è buonissimo ma non bello e difficile da mangiare. Così abbiamo pensato di disossare lo stinco di vitello e cuocerlo sottovuoto a bassa temperatura con limone e prezzemolo: la classica gremolada, insomma. Quando ero piccola mia madre la metteva sull’ossobuco, ma io non sospettavo che fosse un condimento milanese. Probabilmente glielo aveva suggerito qualche amica. Servo lo stinco a cubi su una polentina morbida con il suo fondo e due salse, una di midollo, l’altra di prezzemolo e limone. Perché senza liquidità risulterebbe stoppaccioso. Ci sono anche le puntarelle, per il croccante e l’acidità della vinaigrette alle acciughe”.


“Credo molto in questo piatto, nato da un suggerimento del mio souschef siciliano, Alessandro: ‘In Sicilia la seppia si fa col maiale. Dobbiamo provare qualcosa’. Così sono nati questi cilindri di zampetti lessati, disossati, messi in forma e croccantati in padella, poi sormontati da piccoli nidi di seppia cruda, che mettono a confronto due consistenze grasse e due callosità, a temperatura rispettivamente calda e fredda. Per sgrassare aggiungo altri ingredienti isolani: la granita di cedro, il cedro candito, la scorza di cedro, che chiamano cotone ed effettivamente assorbe l’eccesso di succulenza. I bocconi sono già pronti, come vuole il food design, in modo che i sapori vengano sempre assemblati in modo corretto”.


Fra i dessert il sorbetto di mandorla, con la sola aggiunta di acqua e zucchero, unito a pistacchi e albicocche secche per l’acidità, su un crumble sempre ai pistacchi. “Stanno benissimo insieme, ma non ho inventato nulla”.


Oppure Diversamente caffè, con gelato biscotto ripieno di ricotta al caffè, gelato al caffè, chibouste e cialda al caffè, marshmallow alla menta e arachidi e crumble di caffè e arachidi, dove la frutta secca spezza la monotonia con un altro tono di tostatura. E ancora la sfera di meringa al vapore con gelato di miele di castagno e cialda croccante alle noci, la cui dolcezza è riequilibrata dalla doppia acidità di ananas e succo di melagrana.

 

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

Indirizzo

Ristorante Da Caino

Via della Chiesa, 4 - Montemerano - 58050 Manciano (GR)

Tel. +39 0564 602817

Mail: cainosrl@gmail.com

Il sito web del ristorante Da Caino

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