Gualtiero Marchesi, Massimo Bottura, Philippe Léveillé, Massimiliano Alajmo: sono i nomi sul curriculum di Ivan Maniago, giovane chef.
La Storia
La Storia di Ivan Maniago
Tutto ci si aspetterebbe, fra condomini scrostati e alberghi un po’ fané, sulla strada che oltre i binari lascia intravvedere le spiagge, fuorché di imbattersi in un ristorante come questo: giovane, elegante, rifinito come un croquembouche d’altri tempi. L’impressione è di trovarsi in qualche operosa provincia del nord-est, invece siamo a Cavi, nella zona (innegabilmente) un po’ depressa del Levante ligure. Acque cristalline eppure un po’ stagnanti, che Ivan Maniago sta cercando di smuovere, forte di un curriculum pazzesco.
Trentun’anni, nato a Pordenone, Maniago dopo la scuola IAL con professori d’eccellenza come un giovanissimo Giacomello, ha subito fatto la valigia per girare i posti giusti. Prima l’Albereta con Marchesi e Berton, poi il Miramonti l’altro con Philippe Léveillé, in qualità di stagista e poi per 3 anni ai primi e agli antipasti. “Ed è stato lui a farmi innamorare della cucina, trasmettendomi le basi insieme alla possibilità di sbagliare. Da lui ho imparato come trattare la materia, ad esempio i fondi; ma in generale condivido il suo approccio, perché sono uno cui piace mangiare”.
“È stato per la sua mediazione che poi sono arrivato alle Calandre. Dopo 6 mesi di Calandrino, utili per familiarizzare con il metodo, sono entrato come capo partita ai primi ed è stata una folgorazione lunga due anni. Al di là della cucina, Alajmo è capace di insegnare il concetto della materia, a guardare oltre quello che mette nel piatto, tanto che spesso è di scarto”.
La Liguria entra in scena per amore. Al Nelson di Chiavari scatta il primo incarico di chef, con piena fiducia da parte dei proprietari di un’insegna storica e nel rispetto dello spirito dei luoghi. Il risultato è una cucina classico contemporanea che sblocca l’orologeria delle tipicità, dalla zuppa di pesce alla pasta con le triglie. “Ma sentivo l’esigenza di tornare a un gastronomico puro e l’occasione è arrivata con Gian Piero Vivalda dell’Antica Corona Reale, dove ho trascorso due anni da sous-chef”.
“A questo punto mi sentivo maturo per un locale tutto mio. A Cavi c’era questa trattoria chiusa da anni e ho deciso di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Abbiamo iniziato i lavori in dicembre, rinnovandola completamente perché volevo un ristorante trasparente per una cucina trasparente, senza barriere con la sala né tovaglie sui tavoli, con la luce sopra a filo”. Il risultato ricorda un po’ Aqua Crua, altro luogo di scintilla grazie a Giuliano Baldessari, già collega alle Calandre. E nella cucina, disegnata dal kitchen designer Andrea Viacava, lo stesso di Alajmo, non manca nulla delle tecnologie à la page.
A pochi giorni dall’apertura, la Liguria deve ancora stordire con i suoi profumi, ma si annusa la strada presa nell’aria. “Ed è una gastronomia che adoro, perché fatta di confini sottili, le erbe, i crostacei, ingredienti così delicati che ogni contaminazione è un rischio”. Dal circondario arrivano gli ortaggi dell’azienda agricola Orseggi, il pesce di Verrini a Savona e le erbe spontanee; senza dogmatismi, perché la carne bovina è della Granda. Né va diversamente nella carta dei vini, che elenca 200 etichette in gran parte “alternative” e in progress sul fronte regionale.
I Piatti
Panino ripieno di panzanella, Cubetto di mortadella grigliato con senape e pistacchio e Sfera di parmigiano
I menu sono tre: Impronta classica, il più personale Impronta d’acqua e il Mano libera, rispettivamente a 50, 60 e 75 euro. Il pane (da alleggerire) a lievitazione naturale, bianco, integrale e alle olive.
Dopo gli appetizer (panzanella nel pomodorino, mortadella grigliata al pistacchio, crocchetta di Parmigiano), i capelli d’angelo freddi Benedetto Cavalieri mixano memorie marchesiane e retaggi delle Calandre. Passati nell’acqua di cozze e vongole dopo la cottura, sono conditi con una salsa di pistacchi di Bronte (ottenuta con acqua frizzante al Pacojet e poi montata a maionese con olio e succo di limone), una tartare di gamberi rossi di Mazara e triglie, per la diversa masticazione e due sfumature di dolcezza, più il caviale osietra per la sapidità e per riprendere la frutta secca e l’erba cipollina quale citazione di Marchesi.
Segue il ricordo di un viaggio: la Tailandia mediterraneizzata della zuppa di cozze, vongole, fasolari e lumachine di mare nell’acqua dei molluschi al latte di cocco, senza coriandolo, ma con una grattata di lime, i pomodorini appassiti, il vermouth per la leggera nota amara, erba cipollina e aneto.
Il risotto (da carnaroli vercellese con germe) è portato a cottura con passata di pomodoro, per l’effetto velluto, e mantecato con olio di Chiavari del frantoio Solari freddissimo, per evitare la separazione. Insaporito con capperi e aglio, intenso e centrato, evoca i principi gustativi di una marinara in assenza di pesce, la pizza come il risotto.
Ma c’è anche lo spaghettone Benedetto Cavalieri che non è una carbonara, nato per errore. “Stavamo eseguendo due preparazioni, di fagioli e foie gras, ma le abbiamo sbagliate entrambe. Così abbiamo deciso di usarle per il personale, ma l’unione nel piatto ci è piaciuta. Per le proteine ci sono i borlotti freschi in crema, per il grasso la scaloppa di anatra scottata ed emulsionata, più una salamoia affumicata per regolare la consistenza e una julienne di speck”. L’effetto in bocca è capitolino, ma anche di castagna.
È molto classico, ma forse un po’ invernale, il maialino da latte mantovano, acquistato intero, cotto a pezzi sottovuoto per 18 ore a 68 °C, disossato e messo sotto pressa con le parature nelle cavità, fino a ottenere mattonelle regolari. Leggermente affumicato con trucioli di faggio, è scottato sulla pelle, che risulta ben biscottata, e finito al grill. Viene servito con una guarnizione di cipollotto al tartufo di Borgotaro, un fondo di vitello infuso alla polpa cotta di maiale in funzione di legante e una salsa di senape, dove forse si manifesta qualche timidezza nell’acidità.
Si chiude in freschezza con i ravioli di ananas, classico anni ’80 rivisto in chiave “piña colada”. Dove le fette sono chiuse sottovuoto per tre volte, in modo da favorire la fuoriuscita dell’acqua e concentrare gli zuccheri, uniformando il gusto; il ripieno è di crema pasticciera al cocco; la zuppetta di centrifugato di ananas, latte di cocco e rum bianco, più una spolverata di pepe rosa e lime. E poi le friandises: il melone con crema pasticciera alle erbe, la pasta di meliga e la meringa alla panna.
La fotografia di copertina è di Roberto Mostini
Indirizzo
Ristorante impronta d'acquaVia aurelia, 2121 - 16033 Cavi di Lavagna (GE)
Tel. +39 375 529 10 77
Mail I.maniago@improntadacqua.com
Il sito web