Con i suoi 60 anni di storia, vanta la stella più antica del sud Italia. Ma la cucina non ha niente di fané: schiettamente mediterranea
La Storia
La Cucina di Antonio Dipino alla Caravella di Amalfi
Quando mamma Anna e papà Franco salparono sulla loro Caravella, nel 1959, la Costiera Amalfitana non era quella che noi tutti conosciamo. Già “divina”, eppure ancora ingenua a tavola, con i suoi mangiari semplici e qualche spruzzata di cucina internazionale negli hotel di lusso, passeggera come uno scoscio sugli scogli. In cambusa c’erano acciughe e calamari, olive e limoni. Ingredienti mediterranei, gli ingredienti di sempre. Mentre gli spazi erano già quelli, raccolti e appartati, di un palazzo del XII secolo, dimora dei Piccolomini, fondatori del Ducato Amalfitano, dove nel Rinascimento era stato custodito l’archivio ducale.
A fare la differenza la curiosità: Anna era casalinga e autodidatta, ma dotata di mano e di palato, oltre che ben consigliata dai fratelli di Franco, professionisti dell’hôtellerie che giravano il mondo. All’inizio appoggiava sul pass i piatti di un’odierna trattoria di qualità: spaghetti ai frutti di mare, calamari all’amalfitana, frittura, pesce alla griglia e in zuppa. Ad affiancarla, per colmare qualche residua lacuna, grandi professionisti come Enrico Cosentino, creatore al suo fianco degli scialatielli, pasta fresca che rappresenta l’ultimo classico contemporaneo della cucina italiana. “Con il cocktail di gamberi e il soufflé al limone, fu uno dei piatti della stella, arrivata nel ’69 ed eclissatasi qualche anno più tardi, finché non l’ho ripresa nel 1995; a comunicarmelo fu Alfonso Iaccarino. Ricordo che il ristorante girava benissimo, con mio padre maestro dell’accoglienza e della sala. Tanto che ancora oggi c’è chi mi chiede di lui. Da noi sono passati praticamente tutti gli stellati della zona, per capire come fare e riallacciarsi magari ai nostri piatti, che avevano fatto la storia della cucina in Costiera”, racconta oggi Antonio.
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Fu proprio Franco ad attirare alla sua corte gli artisti di fama, che esponevano presso gli Antichi Arsenali, contribuendo a venderne i quadri. Fra di essi Andy Warhol (“perché la pop art è nata ad Amalfi”), che alla fine degli anni ‘60 suggerì di dipingere una saletta di nero, rosso e viola, quale sfondo ai suoi quadri in vendita. “Oggi sarebbe di un’eleganza assoluta, ma a quei tempi con le lanterne di ceramica sembrava il cimitero. Tanto che l’abbiamo rimossa. Poi mi è stato proposto più volte di recuperarla, ma non ho mai acconsentito, per non discriminare i clienti. Ho rischiato anche di rovinare tutto, quando un celebre architetto mi ha proposto di sostituire un pavimento ormai rarissimo in marmo rosso di Verona e rivestire le pareti in cartongesso. Ho capito che avevo un tesoro nelle mie tre salette, con i soffitti originali o affrescati da Luca Mancini”.
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Spazi popolati da una collezione di opere dei più grandi maestri ceramisti della Costa d’Amalfi, datate dal 1800 ai giorni nostri. “A raccoglierle ha iniziato papà, poi io ho continuato. È consuetudine che qualsiasi artista di fama passi da Amalfi, per esporre una sua ceramica debba realizzarla a Vietri e omaggiarla”. Il logico sviluppo è stata la vicina Art Gallery, inaugurata nel 2009 come negozio di ceramiche ed enoteca.
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Nel frattempo Antonio si formava, con Cosentino e per 6 mesi in Bonvesin de la Riva, dove Marchesi gli ha trasmesso un minimalismo fuori dal tempo, consolidando il suo amore per la tradizione italiana. “L’ultima volta che è passato da qui, quando l’ho chiamato ‘maestro’ si è schermito: ‘Il maestro sei tu’, ha detto. Dovevo andare anche da Bocuse, ma sono partito immediatamente, in preda alla nostalgia della Costiera”.
Il Ristorante
<br />Tanta storia, eppure la cucina non ha niente di fané: si potrebbe anzi definire “responsabile” nell’amministrare la sua eredità, abbracciata nel compasso di una creatività rispettosa. Nessuna tentazione di strafare, mai l’ombra di uno stravolgimento. Piuttosto l’evoluzione di un approccio spontaneo, quasi popolare, e di ricette viventi nella loro immediatezza mediterranea, assemblaggi di gusti riconoscibili, colori sgargianti come le ceramiche dintorno, ingredienti puri la cui semplicità è classica per quanto di tutti, anche grazie a preparazione in larga parte espresse.
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La materia prima è locale per il 99%, dal pesce agli ortaggi, con qualche divagazione cilentana per l’olio. Mentre la cantina spazia: vi si depositano 50 anni di ricerca e passione, con bottiglie uniche che a volte i produttori cercano di ricomprare, come determinate annate di Vin Santo Occhio di Pernice Avignonesi. In tutto sono 1800 etichette, amministrate dal sommelier Tonino Faratro, sempre più attento alla crescita del territorio.
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I menu sono 3: il lunch di 4 portate a 50 euro, il degustazione stagionale a 90 e il Tradizione e innovazione, con i signature storici al limone intervallati da corse contemporanee a 135 euro. “Per i 60 anni del ristorante abbiamo scelto di esordire con un omaggio a mamma Anna e alla sua bruschetta: viene rivista con il pane non infornato ma fritto, la mousse di mozzarella e il pesto di pomodoro. A occhi chiusi è uguale in bocca. Ma ci sono piatti che non riesco a fare come lei, per esempio il ragù”.
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I Piatti
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Il crudo, in questo caso fette di tonno e ricciola, è servito con caponata di biscotto di Agerola ed extravergine Itran’s. “Riprende l’usanza dei pescatori di ricuocere il pane, per conservarlo fino a un mese e consumarlo bagnato, condito con pesce crudo prima di tornare a riva. E se il pescato era scarso dicevano che non avevano catturato niente”.
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Si rifanno a mamma Anna le alici alla provola affumicata, mitigata dalla patata in forma di crocchetta, con guarnizione di cime di broccoletti, crema di mozzarella e colatura di alici. Un piatto dove la matrice popolare è rivendicata e sublimata in una composizione pulita, senza velleità.
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Eccellente poi il battuto di pesce spada (talvolta anche ricciola o scorfano) grigliato nelle foglie di limone. Piatto dai rimandi mediorientali, che risale anch’esso a mamma Anna, la quale però usava i bianchetti. “Il pesce, battuto a mano e appena condito con olio e limone, in questo modo si carica di profumi, senza diventare amaro. Solo lo sfusato va bene: in giro per il mondo hanno tentato di omaggiarci, ma le foglie si bruciano e si rompono”. La carica aromatica, veicolata dal pesce grasso, è inebriante.
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Come non deludono gli scialatielli, ripresi l’anno scorso dopo una lunga assenza “a furor di cliente”. Nella patria delle paste secche al dente, hanno una consistenza fondente quasi da spätzle grazie all’impasto, ricco di uova, latte ed extravergine. “Soprattutto sono stesi e tagliati al momento, senza toccare macchina”. Il condimento cambierà ogni anno; questa volta è composto di crema di zucca napoletana, broccoli e cubetti di pesce crudo misto.
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Oppure i tubettini all’aragosta, caleidoscopici al tatto come una fregula. “Nascono dal ricordo della pastina col formaggino da bambino. Uno dei miei piatti preferiti. Ho voluto riproporlo ma in versione deluxe, quindi con un consommé di aragosta, la pastina minuta preparata appositamente da un pastificio, scampi e granchi crudi per mitigare l’intensità dell’aragosta e centrare un equilibrio non facile”.
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A traghettare verso il dolce è il gambero di nassa crudo del fiordo di Furore con pera all’Aglianico e ricotta, versione salata di un dolce classico della Costiera. Poi lo stacco del sorbetto, preparato secondo la ricetta originale di mamma Anna, con la sua consistenza quasi da granita. Le melanzane al cioccolato, tipicità del XVIII secolo contesa da conventi e monasteri, sono state un po’ riviste, con le fette infarinate e fritte due volte, secondo tradizione, ma non ammollate nel liquore Concerto, rosolio di erbe di Tramonti, che viene spostato sul gelato di arancia per non alterare il gusto dell’ortaggio. Invariati o quasi la crema pasticciera, la salsa al cioccolato e il condimento di canditi e pinoli.
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Gran finale con il Sole nel piatto, debordante dessert al limone di Amalfi (e talvolta al cioccolato), già specialità di mamma Anna. A battezzarlo fu un altro cliente eccellente, il poeta Salvatore Quasimodo, che da habitué del ristorante, ghiottissimo di quella “nuvola”, suggerì il nome più azzeccato, arrivando quasi a bisticciare con Franco. “Ma in realtà è nato da un errore, perché mamma si è dimenticata la farina nell’impasto. E le dimensioni ingannano data la leggerezza. Ogni sera abbiamo la fila di gente che ritorna solo per assaggiarlo”. Un must della Costiera: l’unico sole che non tramonta mai.
Indirizzo
Ristorante La CaravellaVia Matteo Camera n 12 - 84011 Amalfi - SA
Tel. +39 089 871 029
Mail info@ristorantelacaravella.it
Il sito web