Fra gli chef più influenti della cucina contemporanea, Nobu Matsuhisa conta una sessantina di ristoranti. Ecco come il suo stile rivoluzionario si è declinato a Milano con la complicità di Giorgio Armani e Antonio D’Angelo.
Nobu Milano
La storia
Vent’anni + 2: era l’ottobre del 2000 quando Nobu finalmente acconsentì a posare la sua insegna in Italia, a casa di Giorgio Armani. Un passo importante verso la trasformazione di Milano in metropoli cosmopolita, compiuto quando il sushi per tanti era ancora Unidentified Food Object. Per festeggiare il ventennale, è stato tuttavia necessario attendere il 2022, a causa del biennio di blocco pandemico. Poi Nobu è decollato per una festa speciale da celebrare insieme al resident chef Antonio D’Angelo.
È quasi surreale immaginare la cucina ante Nobu, dove tante cose non erano ancora accadute. Si deve allo chef giapponese, oggi settantatreenne, se sono state abbattute le prime frontiere della cucina: quelle geografiche. Lui però non parla di “fusion”: la sua formazione si è svolta classicamente in un rinomato sushi bar di Tokyo, prima di partire per il Perù al fine di conoscere una nuova cultura; ed è stato lì che ha iniziato a mettere a punto il cosiddetto “Nobu Style”. Significa innestare su basi nipponiche ingredienti prima peruviani, poi di ogni dove.
“Qualcosa di piuttosto semplice, assai meno ‘complicato’ della fusion come la si intende comunemente”. E la cucina non ha mai smesso di meticciarsi, via via che l’impero si espandeva, prima negli Stati Uniti, poi un po’ ovunque. Oggi conta una sessantina di esercizi, fra i format Nobu e Matsuhisa, che fungono da laboratori per il suo sviluppo. Non è esagerato affermare che in questo modo cambiava il modo di mangiare nel mondo, proprio mentre il fine dining europeo iniziava a saccheggiare il repertorio giapponese. Il ceviche, tanto per fare un esempio, prima della storica rilettura marinava per ore. Una rivoluzione senza gagliardetti Michelin, che Nobu non ha mai cercato: “Per me la stella è sedersi, ridere, divertirsi, il miglior cibo e il miglior servizio”.
Il ristorante
Qual sia il posto dell’Italia in tutto questo, ce lo spiega Antonio D’Angelo, chef di origini campane che dal 2009 guida il ristorante milanese, dopo un lustro speso da chef de partie e da sous-chef. Anche lui si è formato classicamente, ma nell’accezione europea, ricoprendo il ruolo di secondo presso stellati come il Leon d’Oro. “Ma quando sono entrato qui, ho provate le emozioni di un bambino in un negozio di giocattoli. Della cucina asiatica conoscevo qualcosa, mi piacevano soprattutto i noodles, ma oggi capisco che in pratica ero all’oscuro di tutto. E sono stato travolto da un’enormità di prodotti e di tecniche, che mi hanno fatto rinascere alla professione”.
La Campania ha un feeling speciale con la fusion, sarà per il mare con i suoi traffici larghi, sarà per il rispetto della materia prima e della tradizione. “È qualcosa che si tramanda di generazione in generazione. Più che nell’esecuzione dei piatti, in questi aspetti ho ritrovato la mia terra. Ad accomunarci sono il grande gusto e il grandissimo prodotto”. Nobu l’ha portato con sé a Tokyo, facendogli fare il giro del mercato del pesce e altre esperienze memorabili; ma D’Angelo si è confrontato anche con gli chef del gruppo sparsi per il mondo, dalla cellula di Los Angeles fino a Mosca e a Londra. “Gli incontri e i training interni rappresentano una formazione continua, che si rinnova almeno una volta l’anno. Questo è un lavoro fatto in gran parte di scambi”.
“Antonio è uno chef molto creativo, sensibile, tecnico”, lo descrive il maestro. “Prima di incontrarmi, padroneggiava già la scuola italiana e quella francese. Ed è diventato un referente, quando si è trattato di inserire un po’ di italianità nei miei ristoranti in giro per il mondo. Parlo di ingredienti che mi piace portare nei piatti: il tartufo, l’olio di oliva, il Parmigiano, così ricco di umami, dell’insalata al dry miso, che si può preparare anche con le puntarelle, verdura del cuore. Prima di conoscerlo non cucinavo con il formaggio, perché in Giappone non siamo abituati. Poi ogni paese ha il suo pesce e qui a Milano non mi posso lamentare: trovo il branzino, le sarde, il tonno. Mi piace usare ingredienti il più possibile locali”.
A dargli una mano in questo senso è arrivato ancora una volta D’Angelo, che durante la pandemia ha aperto un’azienda agricola nel Bresciano. Vi produce principalmente vegetali giapponesi come la pera nashi e il nagaimo del suo signature, il tortello di wagyu al Parmigiano, che combina le tradizioni gastronomiche dell’Italia e del Giappone interpretando un’icona condivisa, la pasta, in chiave no waste.
“Ma la patata di montagna è ancora in fase di sperimentazione, contiamo che sia pronta fra un anno”, precisa. Anche il wasabi, a detta di Nobu, avrà bisogno di un po’ di tempo per raggiungere la sua piena espressione. Ma la strada è tracciata: di fatto il 60% dei vegetali adoperati al ristorante è già farm to fork, quindi ben più fresco e conveniente di quanto trasportato dal Giappone con sosta a Londra, alla faccia dell’impronta di carbonio.
Ma non è l’unica novità in cantiere. In questi vent’anni la cucina giapponese ha guadagnato un’enorme popolarità, ulteriormente cresciuta con la pandemia, in virtù della relativa adattabilità al delivery. “Un canale che la Giorgio Armani non ha voluto chiudere: siamo in fase di lancio della nostra nuova ghost kitchen, dove serviremo Nobu e Emporio Armani Caffè”.
I piatti
La scelta è fra tre menu degustazione: i signature di D’Angelo, quelli di Nobu e il vegetariano, per un prezzo compreso fra 100 e 160 euro. Sono accompagnati da riso, non pane, e da una carta di vini e sakè, con predilezione per le bollicine. Nel primo percorso spicca il Branzino cileno con miso di datterini, nato per replicare un celebre signature di Nobu, il black cod al miso, in chiave italiana. Quindi un miso, ma da pomodorini essiccati, utilizzato per la stessa lavorazione di marinatura, cottura al forno e finitura al cannello volta al croccante fumé, che ricorda la crosta della parmigiana. Dove la varietà di pesce è scelta per la percentuale di grasso ottimale, che si presta a tutti i tipi di cottura, e la falda dettagliata da merluzzo importante.
Non è da meno la Bresaola di wagyu, nata per giocare con la carne giapponese, sottoposta a una lavorazione tipicamente italiana. Viene massaggiata per 15-20 giorni, utilizzando sale di Hokkaido, spezie giapponesi come il carbone di kombu e starter del sakè. Il risultato è una bresaola ben diversa da quella cui siamo abituati, morbida, gustosa e succulenta grazie ai grassi.
“Il King crab con avocado e chips di taro, tubero prodotto nella mia azienda agricola, ha rappresentato la risposta alla forte richiesta di questo crostaceo in Italia. Sembra un roll di sushi, ma non contiene riso, solo granchio e avocado, per la componente healthy; al posto della soia una maionese e una salsa di semi di tamarillo, che portano acidità, conservando il gesto e il rituale”, illustra D’Angelo.
Poi c’è il Salmone, spinacino, goma tosazu, aglio nero e miso, che cita di nuovo un signature di Nobu, l’insalatina di spinaci al Parmigiano. “Ho un grande rispetto per il salmone, che a volte viene sottovalutato. Avendo visitato la farm in Scozia dove lo acquistiamo, ho voluto lasciarlo il più possibile al naturale. Quindi una marinatura in sale e zucchero e la cottura nell’olio, per la consistenza del salmone crudo, ma da cotto e l’esaltazione del gusto”. Completano il piatto la salsa di sesamo pestato al mortaio e aceto tosazu, il miso e l’aglio nero.
La pasticceria prosegue il rimpallo applicando tecniche europee a ingredienti giapponesi come tè verde, yuzu, umeboshi e fiori di pesco.
Indirizzo
Nobu Milano
Via Gastone Pisoni, 1, 20121 Milano MI
Tel: 02 6231 2645
Sito web