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Il Ritorno di Agostino Iacobucci, ecco il nuovo ristorante a Villa Zarri

di:
Alessandra Meldolesi
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agostino iacobucci copertina 970

È ripartito dai successi dei Portici lo chef campano, all’opera da aprile in una nuova location: Villa Zarri, sede settecentesca della celebre distilleria, alle porte di Bologna.

La Storia

L’atmosfera è quella di un Relais et Châteaux: bastano una ventina di minuti dal centro per oltrepassare il cancello di quella che un tempo era una dimora nobiliare, la settecentesca villa Angelelli, eletta a residenza nel 1954 da Leonida Zarri, uomo del brandy Buton che qui trasferì anche l’azienda liquoristica acquistata a Murano. E il totem della distilleria troneggia ancora in un edificio del complesso, immerso in un verde dove perfino fagiani e lepri respirano la “partie des anges”, inebriante volatilizzazione di alcol e profumi che impregna l’atmosfera. L’ala più nobile, tuttavia, se l’è accaparrata Agostino Iacobucci. Ed è da quella che era la cappella affrescata con putti d’altro genere, altare compreso, che si accede alla solenne sala da pranzo, con i soffitti a cassettoni e i tavoli ben distanziati.


È da 8 mesi che Iacobucci lavora a questo progetto, dopo l’interruzione repentina del brillante lustro trascorso ai Portici, unica stella Michelin del centro di Bologna. La struttura era adibita a villa privata e saltuariamente affittata per ricevimenti ed eventi; finché il proprietario Guido Fini, discendente di Leonida, non ha voluto aprire le porte. Iacobucci dal canto suo l’ha toccata meno possibile, rispettandone l’aura di villa di campagna: sono nove tavoli rotondi e ben distanziati, per un massimo di 30 coperti, serviti da una cucina De Manincor. Al momento senza banchettistica.


Per la prima volta chef patron, è ripartito dallo stile e da alcuni signature di via Indipendenza. Lui che è in larga parte un solista, svezzato al prodotto dalla nonna e dalla mamma contadine a Lettere, mentre il nonno produceva vino e olio, salumi e conserve; alla cucina dalla zia Giovanna, paraprofessionista che svolgeva eventi in una struttura ricettiva con classici vintage quali cannelloni e pennette alla boscaiola, gnocchi alla sorrentina a sella di vitello. “La mia icona però è Alfonso Iaccarino, dal quale non ho mai lavorato. Ci sono stati invece Enrico Cosentino, qualche esperienza in Francia, la frequentazione di Niko Romito e Mauro Colagreco. In Campania tradizione vuol dire acqua pazza e spaghetto con le vongole: sono dovuto emigrare per scoprire le regole e l’organizzazione di una brigata professionale. Come un’orchestra sincronizzata sui tempi. Senza mai cancellare il mio imprinting, ma contaminandolo dalla Francia all’Emilia. Le tecniche classiche possono essere associate a un pensiero d’avanguardia, sempre fondato sulla tradizione”.


Nemmeno i fornitori sono cambiati: ci sono il pesce siciliano di Qualimed, alias Salvatore Cucinotta, ma anche arrivi da aste sparse attraverso persone di fiducia; i piccioni e la selvaggina sono francesi; le carni di Martini a Boves e gli ortaggi di un orto poco distante, che copre quasi tutto il fabbisogno. Fornisce in particolare le erbe aromatiche e verdure come tarassaco e friariello selvatico, cicorie varie e bietola a foglia rossa. Mentre dalla Campania arrivano i latticini di bufala, i pomodori di Ciro Flagella e la pasta del Pastificio dei Campi, con integrazioni Felicetti; dal Gargano l’extravergine.

Le squadre invece sono nuove: a capitanare la sala sono il maître Fabio Valente e il sommelier Iacopo Gerussi, ex della Cesoia. Ha composto una carta dei vini da oltre 200 referenze, scovate e selezionate di persona con piglio originale presso piccole cantine spesso naturali. Ama iniziare da un Sorbara, per esempio l’ottimo Fine, metodo classico di Bergianti. Per proseguire esplorando magari un cru, come San Michele a Cupramontana: nel nostro caso ha abbinato nell’ordine il Nur La Distesa di Corrado Dottori, Il Passolento La Marca di San Michele, l’Amistà Ca Liptra; per finire con Vignaibotri Ghiaccioforte. Ma i percorsi al calice sono personalizzati.

I Piatti

I menu sono 3, a prezzi molto contenuti: Emilia, con le sue 7 portate a 58 euro; Mare, che ne conta 7 a 68; Esplorando, mano libera da 10 corse a 80. Nel cestino del pane taralli sugna e pepe, grissini di semola, pane bianco e integrale a lievito madre. Gli appetizer declinano il croccante su acidità altalenanti: ci sono il macaron al pistacchio con mousse di Mortadella, in omaggio alla città; l’airbag di barbabietola con ricotta di bufala, pomodorino alla vaniglia e basilico; il taco con tartare di tonno, maionese alle vongole e uova di salmone; il ravanello marinato allo sciroppo di lampone con nasturzio e maionese di ostrica; il cono di tartare di dentice con topinambur, liquirizia e caprino; le cialde cacio e pepe e alle alghe.


Me è la freschezza il marchio di fabbrica tutto mediterraneo dello chef: in termini di acidità, soprattutto citrine; balsamicità da erbe aromatiche; leggerezza e immediatezza in cottura, spesso raggiunte attraverso tecniche contemporanee, ponderate e nascoste.


Il pesce è più che mai nelle corde di Iacobucci. Vedi lo scampo appena scottato al cannello, per una lieve affumicatura, e servito con rapa al vermouth a sgrassare, frutto della passione per l’acidità crunchy, gelato di pinoli tostati per arrotondare e daikon fermentato, per una testura più morbida e un leggero piccante. In cerca del punto di equilibrio. Oppure la triglia dalla cottura esemplare sotto la sola salamandra, brillante, integra e traslucida, in contrasto di testure con le lumachine, più una bisque di triglia alla nduia, salse di moscione di Sorrento leggermente affumicato ed erbe amare.

Ma Iacobucci è sempre piaciuto mixare carne e pesce: vedi la quaglia francese, marinata agli agrumi per smorzare il selvatico e spadellata al burro e odori, con la coscetta farcita di lardo, fave, rabarbaro e l’astice sbollentato e gratinato al burro di astice, spinto dalla sua bisque. Né manca la pasta garniture: un raviolo di stracotto di quaglia al suo jus. Praticamente un piatto unico.


I piatti migliori, tuttavia, sono quelli lavorati in sottrazione, mettendo a frutto in modo originale, più mediterraneo, la lezione di Romito (e non solo). Vedi gli spaghetti al nero di calamaro, dove il mollusco è cotto lungamente a 70 °C, in modo da estrarne tutta l’essenza in un brodo. Altri calamari, eliminata bocca, occhi e pinna, vengono sciacquati con acqua di mare e cotti sottovuoto “sporchi”, come le seppie, per 3 ore e mezzo a 75 °C, in modo che il fegato esploda e il collagene fuoriesca. Pestati in un mortaio e passati al setaccio, prendono la forma di zollette congelate. Si recupera quindi il brodo, utilizzato per risottare la pasta precedentemente sbollentata in acqua non salata, mantecata infine con la pasta di calamaro, che provoca uno choc termico. L’emulsione di aglio nero fa sprofondare ancor più verso l’umami il gusto del piatto, rinfrescato dalla scorza di lime e dalla tartare di calamaro tostato alla base. Una lavorazione quanto mai tecnica e complessa per appena due ingredienti, esplosivi in bocca.

Oppure gli ormai classici bottoni di patata e dragoncello in trasparenza, per un sentore di liquirizia legato allo iodio, tuffati in un brodo intensissimo di totani. Rivisitano la classica casseruola, vestendola delle sembianze padane di una pasta ripiena in brodo. La lavorazione della liquidità è di nuovo complessa e certosina: i molluschi sono grigliati, spadellati, fatti bollire, raffreddati col ghiaccio; il brodo è filtrato, abbattuto, frullato, scolato e passato alla stamina in quella che somiglia a una crioestrazione.


Ottimo anche il più confortevole tortello Napoli incontra l’Emilia, che centra gusti lontani con un’unica freccia: la forma è di nuovo quella di una pasta ripiena, la farcia di ragù classico napoletano, ma con mora romagnola, più spuma di Parmigiano 36 mesi, salsa di pomodoro e basilico.

È quasi un intermezzo l’evergreen, portata intermedia fra una zuppa fredda e un’insalata liquida: si compone di estratto di spinaci coltivati e selvatici alla Greenstar, alici marinate al limone a compensare la ferrosità con l’acidità, asparagi crudi, rape bianche e borragine, che spinge lo iodio dei ricci di mare, mandorla in pasta e non per la grassezza che arrotonda, più una cascata di erbe aromatiche amarotiche. Quasi lo schema di un’acciuga al verde: iodio e clorofilla in un tripudio di mineralità, che pulisce la bocca per via di astringenza anziché acidità.


Torna allo schema iniziale il piccione francese, spadellato al burro alla francese, con salsa di rapa rossa, quinoa risottata per la cremosità, cipolla grigliata alla salsa di nasturzio e vaniglia, kefir di capra, erbe amare e rocher al panko della sua coscia e delle interiora. Più il classico fondo: in linea ce ne sono sempre quattro.


Il predessert trasla un gesto da inizio pasto: il pinzimonio, con le verdure in osmosi, la salsa di lemongrass e yuzu, la granita di verbena in un caleidoscopio di sensazioni citrine. Chiude il babà, che sembrava imperfettibile, invece è stato alleggerito di zucchero e burro: in bocca una pioggia di spilli, finissima, veicola la bagna profumata da 11 essenze.

Le foto dei piatti sono di NikoBoi

Indirizzo

Ristorante Iacobucci

Villa Zarri – Via Ronco, 1 – 40013 Castel Maggiore (BO)

Tel. +39 051 4599887

Mail ristorante@agostinoiacobucci.it

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