Con i suoi 13mila ristoranti, Dubai è la città a più alta densità gastronomica del mondo. Se ne sono accorte le guide, da Gault et Millau a Michelin, con edizioni dedicate, dove oltre ai big d’importazione, iniziano a trovare posto le eccellenze indigene.
La notizia
Follow the money: la vecchia regola degli investigatori continua a dettare legge in cucina, dove i ristoranti ricalcano strategicamente le mappe della capacità di spesa. Non stupisce, quindi, che il New York Times abbia incoronato quale destinazione gastronomica Dubai, città stato che vanta attualmente 13mila punti di ristoro, equivalenti, se rapportati alla popolazione, alla densità più elevata del mondo.La critica non poteva non notarlo. Sono state tre le guide che quest’anno per la prima volta hanno battuto l’emirato: a febbraio è toccato ai 50 Best Restaurants con la loro nuova classifica per il Medio Oriente e il Nord Africa, che ha riservato a Dubai il record di sedici piazzamenti e l’incoronazione del giapponesizzante 3 Fils; è seguito in giugno il galà di presentazione della guida agli Emirati di Gault & Millau; tallonata a stretto giro dalla Michelin, focalizzata su Dubai. Ma presto ci sarà posto perfino per il vino, con la prima edizione degli Star Wine List’s Awards del Medio Oriente, dove l’alcol in teoria sarebbe bandito.
“La situazione si è evoluta non poco”, ha commentato il direttore internazionale delle guide Michelin Gwendal Poullennec. “Sulla scena culinaria si è verificata un’autentica esplosione”. La responsabilità va in gran parte agli hotel di lusso, che hanno fatto carte false per mettere sotto contratto gli star chef, Da Alain Ducasse a Gordon Ramsay, da Heston Blumenthal a Daniel Boulud, fino a Beck e Nobu. Non a caso i premi sono andati principalmente a cucine d’albergo continentali quali Stay by Yannick Alléno e Torno Subito di Massimo Bottura. La vera novità, tuttavia, è rappresentata da ristoranti radicati nell’emirato, i cui chef risiedono stabilmente in loco, 3 Fils e Tresind Studio su tutti.
“Quando sono arrivata nel 2009, non avevamo ristoranti nostrani. C’erano solo catene, franchising e fine dining d’albergo. La differenza ora è enorme”, commenta Stasha Toncev, che dopo aver lasciato l’Armani Hotel ha aperto il suo bistrot balcanico, 21 Grams. Il cuore dell’offerta batte presso il Dubai International Financial Center, city che si è convertita in hub gastronomico.
Negli ultimi tre anni, gli stabilimenti qui sono triplicati e spesso offrono prodotti locali, come il pesce e i vegetali del deserto, con un occhio di riguardo per la sostenibilità, inatteso da queste parti. Ma le ispirazioni sono le più varie: si può mangiare francese o greco, cinese o giapponese, oltre che un’interpretazione modernista dei classici mediorientali, che solo qualche anno fa avrebbe fatto scandalo presso i tradizionalisti. Ma ormai le cose sono cambiate. Gli chef che hanno fatto fortuna dicono che la filosofia è una sola: tutto è possibile.
Il futuro, però, è incarnato da Solemann Haddad, chef ventiseienne nato a Dubai, che ha incassato il riconoscimento alla promessa per Gault & Millau e il premio quale migliore giovane chef di Michelin. È suo il ristorante più trendy del Medio Oriente, Moonrise, scatola di vetro da 8 coperti appollaiata su un grattacielo da 30 piani. Di sangue misto, per metà siriano, per metà francese, è cresciuto mangiando quel che c’era allora, americano, ma anche pachistano o indiano a buon mercato. Il risultato è la cucina di Moonrise, combinazione delle gastronomie circostanti. “Le tecniche, francesi siriane e mediorientali mi sono utili solo nella misura in cui mi consentono di raccontare la storia di Dubai attraverso il cibo”, racconta del domani agli albori.
Fonte: New York Times
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Chef in copertina: Himanshu Saini