Dove mangiare in Italia Tradizione e ricercatezza

Da Mariella: alla scoperta della leggendaria trattoria sperduta con una cantina inestimabile

di:
Alessandra Meldolesi
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locanda mariella

Una trattoria leggendaria sperduta fra i colli di Parma, due sognatori incalliti e una cantina inestimabile, che c’è e che non c’è. La Locanda Mariella è una confidenza che ogni gourmet è chiamato un giorno a raccontare.

La Storia

Non ci si arriva per caso, alla Locanda Mariella. Indirizzo del quale ogni gourmet ha carpito elogi confidenziali, a modo suo leggendario e certamente unico, seduto com’è su un tesoro inestimabile: la sua cantina da sogno, in mezzo al nulla o quasi. Il toponimo “Parma” evoca una Food Valley tintinnante di risorse e ruote motrici, eppure basta percorrere una trentina di chilometri, probabilmente nella direzione sbagliata, per trovarsi contornati da un paesaggio incontaminato, per non dire arretrato. Un po’ fuori dal tempo, con i piccoli paesi ormai in preda al rigor mortis. Fissi e immutabili, se non fosse per i pochi che imbiancano dietro le persiane.


Eppure c’è stato un tempo in cui sembrava che qui potesse accadere qualcosa. È stato allora, negli anni ’50, che Adriana e Virginio Gennari decisero di costruire il loro albergo, fiduciosi nelle prime avvisaglie di un boom turistico dell’Appennino, dove qualche travet cominciava ad affacciarsi in cerca del fresco estivo, lo stesso che magari faceva capolino a Igea Marina. “È una delle tante storie di gente senza nulla, che però ci ha voluto provare”, racconta oggi la figlia Mariella, da cui prende nome la struttura. “Già i nonni e i bisnonni avevano mandato avanti un’osteria d’antan, due stanzette misere nel centro del paese dove si faceva la spesa in un piccolo negozio, c’era una specie di bar con mescita di pochi liquori e qualche vino, più qualche cosa da mangiare, quello che capitava. Ma c’era questo piccolo boom e i miei genitori ci hanno creduto, al punto da costruire una palazzina. C’era perfino il progetto di un altro piano, ma il vento rapidamente è cambiato e i villeggianti si sono spostati in zone meglio servite. Anche se per un po’ è andata avanti la riserva, con i cacciatori che si fermavano a mangiare e a comprare salumi. Poi un isolamento che è isolazione, qualcosa che bisogna amare per resistere”.


Virginio in cucina si destreggiava da completo autodidatta con i suoi arrosti e i suoi cinghiali, in un contesto ancora rurale, dove il chilometro zero era una condizione di vita; a tutto il resto pensava Adriana, con l’aiuto di Mariella che rientrava nel fine settimana da Bologna, dove studiava storia contemporanea. “Gli esami li ho dati tutti, perché era la mia passione. Ma non volevo finire a insegnare, così all’ultimo mi sono fermata e nel 1990 sono tornata a casa. Non era facile, dopo tanti anni di viaggi e peripezie. Nel frattempo però avevo cominciato ad appassionarmi di vino ed è stata questa la mia condizione: Voi fate pure la cucina che volete, io penso alla cantina. Era successo che nelle osterie dove si andava per l’atmosfera o per incontrare Guccini, avevo capito che il vino poteva essere un ingrediente della vita. Oltre la degustazione mi interessava il convivio che instaurava, al punto da iscrivermi ai corsi AIS. E avevo capito che l’altra mia passione era il viaggio, quindi se andavo in Toscana mi fermavo in qualche azienda e assaggiavo”. Scorribande alle quali a un certo punto si è unito il marito Guido Cerioni, che tuttora la affianca in sala e col bicchiere in mano, oltre a mandare avanti un originale negozio di alta fedeltà sposata al vino a Parma: Hi Fi News – Musica da tavola.


A dire il vero già Virginio, da oste burbero, non era indifferente al vino: in carta, oltre agli amati distillati, teneva il suo Barolo e il suo Brunello, ma senza il peso della cantina. “Sono stata la rovina dei miei genitori. Quando sono rientrata era il momento d’oro delle guide ed ero curiosissima, mentre adesso sono diventata selettiva. Perché ho dovuto conoscere i miti, per poi smitizzarli. Un percorso naturale. Quindi era tutta una rincorsa a comprare quel che potevo, conoscere, viaggiare. Poi dal 2000 abbiamo iniziato a tirare le fila: volevamo cose diverse dopo la confusione iniziale. Quindi un grande amore per la Langa, Cappellano, Mascarello, Rinaldi; poi sempre più Francia, specie quella minore, dal Jura al Roussillon, che sta diventando di moda. Non cercavamo i blasoni, che erano fuori dalla nostra portata, ma gente nuova che avesse voglia di lavorare in un certo modo, quello che io chiamo il naturale buono. Vini fatti con cognizione di causa, lontani dalle mode”.

Basta un aneddoto per capire tante cose: in occasione delle nozze d’oro di Virginio e Adriana, Teobaldo Cappellano in persona arrivò con 36 bottiglie di Barolo in dono. “Le abbiamo stappate tutte e la gente di qui diceva: L’è bon anche se l’è ferm. Perché non era Lambrusco. Eppure non era sprecato, perché anche chi non ne avrebbe mai avuto l’occasione, ha potuto assaggiare una cosa diversa. Fare scuola vuol dire anche disperdere bottiglie. Bisogna sempre seminare per raccogliere, al costo di sprecare un po’”. Una vocazione pedagogica e non speculativa, che è l’anima della trattoria di due sognatori, incalliti evangelisti che col calice in mano propalano cultura.


Sono ancora seduti sopra 2000 referenze: un patrimonio che Mariella e Guido hanno deciso di gestire a modo loro. Al posto della vecchia carta monumentale, agli ospiti arriva un opuscoletto snello che elenca un centinaio di vini.Sono i produttori con cui vogliamo lavorare in questo momento, più 5 o 6 etichette storiche. A prezzi calmierati, perché vogliamo dare la possibilità a tutti di assaggiare qualcosa di buono. Il resto lo teniamo per le serate speciali con gli amici, quando apriamo bottiglie importanti. E per noi ogni giorno stappiamo qualcosa di vecchio, ma non blasonato. A volte con autentiche sorprese, specie fra i bianchi. Quello che è il nostro patrimonio, vogliamo condividerlo in un modo di cuore, insieme a coloro che hanno fatto un pezzo di strada con noi”. Sono bottiglie rare, acquistate prima che entrassero in auge e conservate al meglio, da Overnoy a Rinaldi, a Soldera. Ma si cade comunque in piedi, per nicchia, qualità, profondità e ricarichi: salta agli occhi, per esempio, Le Trame 2009 di Giovanna Morganti a 38 euro.

C’è la sala grande, dove un tempo si festeggiavano i matrimoni, con la cantina del giorno; poi quella delle bottiglie storiche e infine la cantina privata. Vi riposano anche i vini che i due acquistano direttamente in Francia, ma solo per il ristorante e il negozio, utile per smaltire l’immobilizzazione. “Adesso siamo orientati sulle cose che piacciono a noi, il resto è un museo di una o due bottiglie rare, interessanti per studiare l’evoluzione nel tempo”

I Piatti

Ma da Mariella si va anche per mangiare: da qualche mese lo chef è Jacopo Malpeli, giovane parmigiano cresciuto da cliente a queste tavole. Dopo il liceo classico e gli studi in Scienze della comunicazione, ha deciso di cambiare strada in direzione Fragno. Ma prima ci sono stati i corsi AIS, ALMA, un biennio alla Stella d’oro con Marco Dalla Bona, il Sole di Trebbo di Reno con i fratelli Leoni e l’Inkiostro di Franco Madama, in veste di capopartita ai primi; fino al primo incarico da chef presso l’Antica Osteria della Peppina di Alseno nell’arco di un lustro.


Cerchiamo di lavorare con il massimo della freschezza, curando dettagli e impiattamento”, dice. “Ma questa è una cucina che deve rimanere molto semplice, immediata e comprensibile. Tanti fornitori sono della zona, altri no. Mariella dice: come in cantina. Ma sono praticamente tutti artigiani o piccoli produttori. Alcuni li ho portati io da Alseno, altri me li hanno fatti conoscere loro, dopo averli scovati girando per cantine”.


C’è la tradizione, protagonista di un degustazione da 45 euro. “Sono tutti quei piatti che non si possono togliere per rispetto verso la storia dei luoghi. Quella di Virginio era una cucina sincera, schietta, senza mezzi termini, ma di grande sapore. O ti piaceva o ti doveva piacere. Lui era uno di quegli osti di montagna di una volta, che ci mettevano il cuore. Ricordo la cacciagione, le cotiche, le salse spinte e talvolta spigolose. Ricette di cui abbiamo rispettato la base, ma che cerchiamo di alleggerire in termini di grassi e cotture, perché i palati sono cambiati”.


È il caso degli anolini ripieni di classico stracotto nel brodo misto, dentro la cui farcia è facile immaginare i grandi vini della casa. Una ricetta praticamente invariata, a parte le farine non raffinate della sfoglia.


Oppure dell’agnello delle Murge disossato, cotto a bassa temperatura e poi al forno, con la sua salsa a base di fondo delle ossa, senape e miele e le patate ratte lavorate tipo jacket potatoes, per massimizzare la superficie croccante. Sempre presente anche una specialità di quinto quarto, che si tratti di rognone o di cotiche, preparate con i fagioli e il cavolo nero liofilizzato, che sprigiona un “umami quasi marino, quasi di alga”.


Ma c’è anche la creatività: vedi la zucca cotta a bassa temperatura, poi caramellata con torba, burro bianco, mandorle amare e caffè. “Perché in carta avevo troppi primi e ho traslato i tortelli in antipasto, mantenendone il gusto”. Oppure il savarin, ispirato a Cantarelli. “Ma venendo dalla Stella d’Oro, non volevo replicare. Piuttosto ho pensato a una citazione senza confronto. Quindi il battuto di gamberi crudi al posto della lingua salmistrata e il riso leggero, mantecato con crema di mandorle, yuzu e olio, in chiave mediterranea”. Si può chiudere con la cheesecake scomposta: ciuffi di ricotta di pecora montata con crumble alle mandorle, ananas candito al peperoncino habanero e scaglie di cioccolato.

Indirizzo

Locanda Mariella Ristorante

Localita' Fragno, 59, 43030 Fragnolo PR

Tel. +39 0525 52102

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