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2 Stelle Michelin in soli 3 anni a Venezia: la scalata vertiginosa di Donato Ascani al Glam

di:
Alessandra Meldolesi
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glam ristorante venezia

Due stelle Michelin in tre anni: Donato Ascani al Glam celebra il successo di una cucina originale, che combina lo sperimentalismo con l’agio bartoliniano, la primazia del vegetale con la freschezza espressa e il gusto italiano.

La Storia

Due stelle Michelin in appena tre anni. A Venezia non se lo aspettava nessuno, eppure la consacrazione è arrivata fulminea per un talento lampante, ipercinetico di gioventù, ma corrazzato di ogni mezzo per far bene. Merito di una formula originale, la cui chiave sta probabilmente in un sorriso: non c’è niente di burbero e scontroso in Donato Ascani, bensì un’amabilità appassionata che trasfigura l’avanguardia intrattabile in qualcosa di tutti.


Quattro anni trascorsi a Piazza Duomo, da capopartita ai primi, ai secondi, agli antipasti; un anno ai Tre Cristi con Paolo Lopriore in veste di sous-chef e altri tre da assistente del gotha della cucina italiana ad Alma: a dispetto del percorso, Donato Ascani non aveva ancora trent’anni quando è entrato alla corte di Enrico Bertolini per il tramite del braccio destro Remo Capitaneo, compagno di brigata ad Alba. Un incontro non scontato, che si è rivelato a stretto giro vincente, innescando una dialettica a sorpresa.


Non ho mai lavorato con Bartolini: se mi ha influenzato è stato solo parlando”, puntualizza Ascani, che dall’apertura a oggi ha conquistato sempre maggiore autonomia. “Ci confrontiamo spesso su tutto. Soprattutto c’è intesa sul gusto. È uno dei palati migliori che conosca e dal primo giorno ha apprezzato la mia cucina, la ricerca del prodotto e il modo di lavorarlo”. Il risultato va oltre la lungimiranza del talent-scout: a delinearsi piuttosto è una terza via, che chiude il vulnus fra avanguardia e alto comfort, conciliando sperimentalismo e piacere.


Ascani ci riesce perché il Glam, all’interno di uno degli hotel più suggestivi di Venezia, serve appena 8 tavoli: in questo modo, in una città turistica dove il palato internazionale rischia di dettare legge, la cucina può essere modulata sull’ospite, con l’aiuto del personale di sala. Sfrutta tutte le opportunità offerte da un contesto unico. La mia giornata inizia alle 7: vado al mercato di Rialto, mi confronto con il pescatore e il fruttivendolo. Riesco a trovare di tutto, prodotti locali e non, ma cerco di lavorare principalmente ingredienti di laguna. Poi me li consegnano in barca, direttamente al ristorante. Dalle isole qui intorno, le Vignole, Sant’Erasmo, la penisola di Cavallino, arrivano gli ortaggi, ma il mio prossimo obiettivo sono una barca e un terreno del ristorante. Sono andato a fare la spesa con Lopriore e nell’orto con Crippa, ed è quello che voglio raccontare nel piatto: la mia mattinata al mercato”. Completano il paniere il pesce della laguna, i piccioni piemontesi, l’agnello di Varvara, il manzo di Rizzieri.


La stagionalità e il fresco sono scelte praticamente obbligate a Venezia, dove gli spazi delle cucine sono quanto mai risicati (ma qui potrebbero presto aumentare). In assenza di stoccaggio, le erbe non toccano frigo, il sottovuoto e l’abbattitore vengono ridotti al minimo, mentre le cotture sono perlopiù espresse in padella. L’impronta di Paolo Lopriore è leggibile nei sapori diretti, frutto di pochi passaggi, dove il gesto ha la meglio sulla tecnica, e nei gusti puri, netti, italiani. Il risultato è una cucina del mercato istintiva (il carta bianca serve anche a questo), dove il sale è protagonista. Un po’ per la laguna, un po’ perché Ascani è nato a Fiuggi e dal centro Italia porta con sé il senso per la sapidità, insieme alla predilezione per il quinto quarto di terra e di mare. “E lavorando con erbe e verdure praticamente bagnate dal mare, riesce tutto più facile”. Dalla Laguna arriva inoltre lo studio delle spezie, in transito per qualche fondaco dall’estremo Oriente.


Si può optare per il menu Arte, orti e laguna, dedicato ai prodotti e alle tipicità locali, dalla seppia all’anguilla, alle acquadelle, a 120 euro. Oppure finire nella rete del menu istintivo, composto di 8-10 portate secondo il mercato e il cliente, a 150. Mentre la selezione dei classici di Bartolini è stata abolita già dopo un anno. Nel cestino la pagnottella a lievito madre con una miscela di farine di grani antichi e di Mulino Marino, grissini al peperone crusco e alla farina di mais da accompagnare al burro salato montato.

I Piatti


Gli appetizer sono tanto numerosi quanto gustativamente centrati nel loro gioco di contrasti. Evocano in un’accumulazione furiosa le cicchetterie veneziane. La gondola di cialda al nero di seppia con maionese citrina, finger lime e caviale di aringa funge da abbrivio sapido-acido al pasto, con la sua scia di divertissement.




Il fungo di cialda ai funghi secchi con terra di alloro, peperone di Senise, cacao e fegatini di piccione; la crema all’uovo con bottarga di tonno, bergamotto e peperoncino; la frisella di noci sifonata al microonde con acciughe e puntarelle; la spugna al nero con uova di seppia, maionese e alga kombu; il millefoglie di baccalà mantecato con gelatina di carpione; la cialda di paprika e peperone di Senise; la foglia di acetosa rossa con albicocche fermentate e polvere di karkadè, per un acidità elevata a potenza; il fiore di nasturzio con mandorla amara, yogurt e caviale di aringa; il panino al vapore e fritto con carpaccio di branzino, scalogno marinato e salsa ponzu.


Evoca Lopriore, autore di celebri riletture, la ‘mpepata mi-giap con la cozze al wasabi su alga al wasabi e mini quenelle di sorbetto al limone, da mangiare finger. Dove la radice asiatica sostituisce la spezia piccante, la presentazione sul ghiaccio alla maniera di una soba spinge la mineralità.


Ottimi anche i raviolini di rapa piemontese ripieni di arachidi con cime di rapa piccanti, brodo di pollo corposo e una granita di ricci di mare grattugiati, che evoca un hit di Bartolini. E ancora il gelato di mandorle (anche amare) con fegato di seppia, anice stellato ed erbe di campo all’aceto per staccare, dove la percussione amara dei tre ingredienti crea un equilibrio altro. “Sono cefalopodi che ci arrivano quasi vivi: il fegato ha un gusto molto fine, lo congeliamo e lo passiamo al Pacojet fino a ottenere una polvere gelata”. Qui il sommelier Francesco Vuolo sfodera un vermouth Cocchi la Veneria Reale, per l’alcolicità sul gelato e per la speziatura, con la dolcezza in contrasto sugli amari.


Sono un omaggio a Crippa, da cui discende l’uso consapevole delle erbe, le acquadelle fritte e disposte a mo’ di branco, accompagnate però da diverse salse (crema di limone salato, gelatina di carpione, maionese al nero di seppia, salsa ponzu) e polveri (alloro e peperone crusco), per muovere il morso. Ne risulta una variazione del cartoccio veneziano di pesce fritto, specialità dei bacari.


È poi una bomba il tuorlo (da uovo bio di montagna) marinato per circa un giorno nella birra Giudecca, che trasmette un gusto amaro dalle venature erbacee, senza alterare la testura. Accompagnato da un millefoglie di coste di bieta di Sant’Erasmo, raccolto nella sua foglia, e da una crema acida ottenuta dalla riduzione di vino, aceto e scalogno, sviluppa in bocca una tensione ad alto voltaggio, esasperata dalla ruta amara, dal nasturzio piccante e dalla menta balsamica, tutte provenienti da Cavallino. Un piatto in cui rivivono le emozioni spericolate degli anni 0.


Più comfort la cipolla cotta sotto sale e servita con panna alla noce moscata, estratto di salvia frullata, filtrata e fatta riposare, più un velo di guanciale per il contrasto grasso. Dove il vegetale è protagonista, come nel carciofo cotto in olio di brace, il cui gambo è ridotto in crema, più foie gras, tartufo nero, erbe balsamiche quali pimpinella e cerfoglio: la riedizione di un trinomio della grande cucina. Nel bicchiere è il turno di una sontuosa Ribolla gialla 2008 di Gravner, che riprende le note terrose e pulisce per via acida.


La lingua di agnello è cotta in pentola sul bordo della stufa per oltre 5 ore, fino a consistenza fondente, poi servita con i bovoletti, lumachine di terra di Chioggia dal gusto iodato, per il contrasto di testure e l’ittico comune a due ingredienti animali, burro al coriandolo e dragoncello. Qui entra in campo il Givry Pied de Chaume Domaine Joblot 2015, morbido sull’agnello, sapido sull’ostrica (un gusto che lo chef chiede a Vuolo di non coprire). Mentre l’animella è coperta da un velo di cavolo cappuccio di Sant’Erasmo, sbollentato e arrostito, e insaporita con ras el hanout, salsa italiana al pomodoro e salsa marocchina piccante.


È già un signature la seppia, prodotto simbolo della laguna. Viene scottata e affumicata al mirto, per un’aromaticità non invasiva o piccante in gola; la guarnizione è una “cima calata” di cavolfiore, come si preparava in casa Ascani, ossia portata a cottura in una riduzione di vino e aceto; mentre la testa è fritta nella farina di mais e le interiori sono stemperate nell’olio, a formare una salsa. Vuolo le abbina un Altenberg De Bergheim 2012 di Marcel Deiss, il cui residuo zuccherino smussa acidità e affumicatura senza stucchevolezza.


È poi un masterstroke il risotto alla parmigiana (all’acqua) mantecato con ginepro fresco tostato e tritato, più guancia di agnello brasata, centrifugato di cicoria e salsa di coratella al cervello, dove l’amaro, nelle parole di Ascani, ricostruisce l’effetto fiele, la cremosità grazie al quinto quarto risulta carezzevole come velluto. “Lavoriamo le teste di agnello intere, cuocendole sul bordo della stufa”, spiega. Ma l’equilibrio finale è mirabile e prettamente italiano: un esempio della fusione a caldo fra i gusti diretti di Lopriore e la morbida affabilità di Bartolini, che accontenta ogni palato.


Il piccione viene arrostito sulla carcassa, poi il petto è scalcato e scaloppato molto al sangue. La salsa è il deglassaggio della padella, più una cascata di foglie (artemisia, achillea, ruta, tarassaco, cicorie, soncino, borraggine) crude, sbianchite per mitigare o spadellate nel ricorrente schema amaro-minerale.


Lo spaghettino, raffreddato in acqua tiepida per eliminare l’amido, è accompagnato da ricci di mare al naturale e polpa di sedano con foglie misto a levistico, frullato con poca acqua e lasciato separare nella parte densa, liquida e schiumosa. Sale su sale (dall’ortaggio se ne ricava una tipologia per ipertesi), in entrambi i casi tendente all’amaro, con l’olio per la quadratura a sorpresa, grassa e piccante. Una geometria gustativa geniale, degna di Paolo Lopriore.


Funge spesso da predessert, per staccare da piatti impegnativi; ma c’è anche la mousse di formaggio con sorbetto di passion fruit, kefir e schiuma di agrumi.


Sorprende infine il dolce: un gelato di latte con crema di limone cotto sotto sale, noce moscata e maggiorana su composta di fichi verdi e neri con crumble, dove la spezia rielabora una memoria di besciamella, ripescando il bandolo sapido del pasto. Per piccola pasticceria il macaron di arachidi, caffè e cappero, il mini tiramisù lampone e cioccolato, la gelée agli agrumi, cocco e ananas, il cioccolato bianco con uvetta alla sambuca e gruè di cacao.

Indirizzo

Ristorante Glam presso Palazzo Venart

Calle Tron, 1961, 30135 Venezia VE

Tel. +39 041 523 5676

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