Chef

Puro talento creativo italiano ai massimi livelli: Matteo Baronetto e Riccardo Camanini cucinano insieme

di:
Alessandra Meldolesi
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camanini baronetto

Il racconto della cena a quattro mani fra Matteo Baronetto e Riccardo Camanini tenuta al Cambio di Torino in occasione del 263mo anniversario, ha rappresentato un vero e proprio evento.

La Cena

Sono diversi i punti di contatto fra Matteo Baronetto e Riccardo Camanini: pressoché coetanei, sono entrambi figliocci di Gualtiero Marchesi, si sono anzi conosciuti proprio all’Albereta con Cracco chef; hanno ottenuto la stella Michelin nel medesimo anno, il 2014, ma ne meriterebbero molte di più. Sono creativi puri, fino a sfiorare l’anarchia nel caso di Baronetto, mentre Camanini tende a un approccio più artigianale e tecnico, è forse più elegante che potente nel suo gioco di equilibri. Rappresentano insomma liturgie diverse in quella che resta una cucina “monoteistica”, che mette tuttora al centro il credo marchesiano.


Proprio per questo e per l’eccezionale caratura dei due protagonisti, fra i primi cuochi d’Italia e non solo (se solo vigesse la legge del merito, al posto di incompetenza e marketing), la cena a quattro mani e due teste tenuta al Cambio il 7 ottobre, in occasione del 263mo anniversario, ha rappresentato un evento. L’occasione imperdibile per affacciarsi al belvedere di una cucina prossima ventura. Come era prevedibile, i due non l’hanno presa alla leggera: tutti i piatti sono stati frutto di un confronto serrato, per quanto a distanza, culminato nel faccia a faccia torinese.


Per Baronetto è stata la seconda puntata di una serie, iniziata l’anno scorso con Fulvio Pierangelini: si chiama non a caso “Affetti personali”, perché di emozioni si tratta, oltre che di bagagli professionali. E non mancano i punti di contatto fra il maestro toscano e Camanini: entrambi grandi artigiani e conoscitori di materie prime, Baronetto li definisce “romantici”.


“L’Albereta è stato il primo stellato in cui ho messo piede, un mondo completamente nuovo”, esordisce Camanini. “Ricordo molto bene Matteo, che all’epoca aveva 17 anni e veniva come extra quando l’alberghiero era chiuso. Mi colpiva che un ragazzo così giovane fosse riuscito a entrare, perché la lista di attesa era lunga. Quando 15 giorni fa mi ha chiamato, mi ha subito detto che non sarebbe stato un quattro mani costruito a tavolino, così abbiamo iniziato a scambiarci qualche foto e informazione su quello che stavamo facendo, in modo da stuzzicare la curiosità reciproca anche su un singolo ingrediente e far nascere ricette condivise. All’inizio non ero convinto di alcune intuizioni di Matteo, che alla prova dell’assaggio si sono rivelate centrate. Abbiamo accettato il confronto con grande curiosità reciproca, il 7 ottobre di buonora abbiamo iniziato le prove e poi la mise-en-place. Mi resteranno la piacevolezza del chiacchierare, la fluidità dell’intesa, la curiosità sul risultato finale. Se invece ciascuno porta il suo piatto, alla fine fra i cuochi c’è sempre un po’ di competizione e resta qualche dubbio sulle sequenze”.


“Per me è stata la prima volta al Cambio, ristorante che sentivo nominare da ragazzino all’alberghiero. E devo dire che mi ha colpito moltissimo la ristrutturazione rispettosa di qualsiasi dettaglio, dalle boiserie agli stucchi, ai pavimenti; come pure la qualità delle attrezzature e della cucina. Non avevo mai lavorato su una macchina del genere”.

 

I Piatti

Già gli appetizer erano condivisi: la focaccia alla brace con alga nori al pomodoro, la lattuga di mare in tempura con lamella di limone in salamoia, i fiori di zucca in tempura con foglia di cappero, l’ottimo lichene fritto con fettina di lardo fondente, scontro perpendicolare di consistenze, chiodi appuntiti e voluttuosità vulnerabili.

Il persico nutrito di collagene di trippa di baccalà e poi fritto in pastella, come un bertagnì bresciano, è stato ultimato da Baronetto con l’aceto di mandorle armelline, dal tocco soavemente amaro, reminiscente degli amaretti di un fritto misto alla piemontese.

Scampi al vapore



E non è certo una coincidenza, il fatto che entrambi gli chef lavorassero sulle foglie di fico e le associassero agli scampi, qui al vapore in un bagno di agresto, la cui volatile esalta il profumo dell’olio verde, più qualche chicco di uva in salamoia, per la similitudine leggera con l’oliva. La prova di un’intesa sotterranea, uscita allo scoperto.

Anguilla fritta, calamansi, alchermes



Poi l’anguilla fritta all’aceto di calamansi e alchermes di Baldo, associata a un brodo di fagioli e pompelmo che ne esalta la nota terrosa. E il piatto del giorno, perfettamente binario, per mettere in rilievo dopo le affinità, le differenze fra i due chef: da una parte i raviolini di gallina, mostarda e burro alle rose di Camanini, dalla seduttività rinascimentale; dall’altra quelli freddi di Baronetto, farciti alla castagna affumicata e nappati di gelatina. Dove la nota floreale si è agganciata alla dolcezza fumé in un bis di pasta contrastato.

Riso con guanciale lesso, funghi al vapore



Triglia alla brace, melone bianco al latte



Savoiardo, pere, pepe indonesiano, lime



Il riso con guanciale bollito e funghi al vapore (geniale intuizione di Camanini) ha rappresentato un incontro di cotture inconsuete. Come insolita è la cottura della triglia alla brace, con un tocco di noce moscata, purea di melone bianco al latte di mandorle e olio di argan. Piatti miscidati fin nei dettagli, mentre il dessert è tornato alla struttura binaria: il finto savoiardo di purea di pera, scocciato come la banana di Cattelan, per un omaggio a Cavour da una parte; il gelato di miele di Ailanto e pepe lungo indonesiano dall’altra.

Ciò che più mi ha colpito è stata la naturalezza con cui sono nati gli accostamenti”, conclude Baronetto. “Alcune cose le avevo già in mente, come il duo di ravioli o l’uva-oliva in salamoia. Ma è stato un quattro mani spontaneo, senza sforzi né meccanicismo. Credo molto nelle similitudini, concetto alla base di tanti piatti del Cambio, che calo anche nei rapporti personali. Camanini è un collega pacato e misurato, che conosce a fondo la materia prima. Ho apprezzato il modo in cui usa i profumi, su cui lavoravo già con gli aceti. Cosicché alla fine è stata anche una cena da annusare. Poi il gesto prezioso, metodico e attento dell’assaggio, mentre io sono più istintivo, nel senso dell’improvvisazione ragionata. Magari certe cose non sono subito evidenti a tutti, occorrono il tempo e la sensibilità giusta per afferrarle”.

Foto di Davide Dutto

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