In Spagna Marcos Granda ha costruito un piccolo impero sul know-how della sala, che lo aiuta ad anticipare i desideri del cliente e a gestire efficacemente le risorse umane. “Non facciamo eventi né congressi, ma tutti i ristoranti funzionano”.
La storia
Non è una storia ordinaria, quella di Marcos Granda, quarantaseienne professionista della sala che sull’analisi del cliente ha costruito un piccolo impero. Conta oggi quattro ristoranti e cinque stelle Michelin, con due inaugurazioni in marcia: Toki, un omakase giapponese a Madrid, e Marcos a Gijon. Ma ha all’attivo anche un volume con Montagud, El camarero de las estrellas. Traguardi che solitamente tagliano solo gli star chef, non certo i “portapiatti”.L’esempio non gli è mancato in casa, con il padre che sommava al lavoro in miniera, le ore nella sidreria dello zio. E proprio dietro quel bancone ha cominciato a studiare come uno scienziato il cliente. Quando poi si è messo in proprio, ha subito mietuto successi. Nel 2018 è arrivata la stella per Clos a Madrid, un anno dopo la seconda per Skina, locale aperto nel 2004 a Marbella. Sono seguiti Ayalga a Ribadesella nel 2019 e Nintai, nuovamente a Marbella, nel 2021; ma Granda tiene particolarmente al Marcos prossimo venturo, ristorante eponimo suo e di Marcos Mistry, responsabile del dipartimento ricerca e sviluppo con esperienze a tre stelle Michelin. È un format che gli piacerebbe esportare fuori dalla Spagna, caratterizzato da una cucina centrale circondata da tavoli, per un totale di dodici coperti, serviti direttamente dai cuochi. Perché ciò che è piccolo si controlla meglio, soprattutto sotto il profilo valoriale. “La gente mi domanda: ancora ristoranti? Ma la psicologa risponde che lo stress è la mia comfort zone”.
“Non conosco i criteri della Michelin, ma so quelli di chi ritorna. La mia priorità è sempre stato il cliente, e il cliente non lo imbrogli”, dice. La forza del cameriere è anche l’umiltà, virtù quanto mai propizia alla gestione delle risorse umane. “Per me il successo nasce dalla forza del gruppo. Mi considero molto fortunato, perché sono circondato da persone di enorme talento. Da anni abbiamo chiari i nostri obiettivo e ognuno apporta il suo contributo. Sono ragazzi giovanissimi, con una grande fame professionale. Per un uomo di sala, non esiste maggior soddisfazione di vedere la propria squadra crescere e migliorare. Ma per trattenere il personale, bisogna pagare, fare contratti giusti, coinvolgere negli obiettivi, dare premi per la vendita, costi quel che costi. E anche imparare a delegare, per non passare la vita a lucidare le posate e i bicchieri”.
“Non mi voglio impantanare, ma abbiamo passato un periodo in cui i cuochi sembravano stelle del rock. Credo che in sala abbiamo una visione un po’ più chiara di cosa può diventare un grande ristorante attraverso il contatto diretto col cliente. Nella buona gastronomia, che sia alta o bassa, non gli si può anteporre niente. Faccio otto o dieci viaggi l’anno per visitare ristoranti con i miei chef, di sala e di cucina. Perché chi ha una stella ne vuole due, e poi la terza. Si rendono conto che all’estero, in Europa, si dà molta importanza al cliente, ad assicurarsi che abbia un’esperienza totale, qualcosa di fondamentale affinché ritorni e il ristorante funzioni. Dobbiamo costruire valori di servizio per e attraverso il cliente, che è il soggetto principale. Non c’è molto di più. Le critiche negative mi danno fastidio, ma al 90% sono giuste e servono per il miglioramento”.
“Il prodotto è la nostra identità, la creatività deve essere canalizzata. Con quattro, cinque o sei piatti, gli snack e i vini per accompagnarli, credo che abbiamo strumenti più che sufficienti per ben figurare e focalizzarci su ciò che conta veramente, cioè la soddisfazione del cliente. Questo ci ha definito, quando intorno tutti facevano menu interminabili da venti o venticinque corse. E se un cuoco fa un piatto che non mi convince, gli dico di farlo uscire ugualmente: è il cliente che deve giudicarlo”.
Fonte: Siete Canibales
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Foto di copertina: @Javi Martinez