È l’emozione femminile secondo Hélène Darroze il segreto delle sue cinque stelle: un atout ancora più cruciale nella ristorazione generosa che si profila dopo il covid. Una donna che non ama essere chiamata chef.
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È il momento di Hélène Darroze, figlia e nipote d’arte che ha portato alla ribalta la cucina del sud ovest di Francia, riscuotendo in cambio tre stelle per il londinese The Connaught e due per il parigino Marsan. Riconoscimenti che fanno di lei la seconda donna più premiata da Michelin, dopo Anne-Sophie Pic con una costellazione di 8 astri (ma sul tetto del mondo sono appena in sette). Merito di una cucina diretta e generosa, “più emotiva che tecnica” secondo le sue stesse parole. “Ancora non ci credo”, sorride.Segnali che fanno sospettare che la rossa stia virando verso il rosa. Lei dal canto suo esorta le colleghe in una lunga intervista concessa a AFP, agenzia di stampa d’oltralpe: “Continuate a vivere la vostra passione da donne. Non cercate di essere altro che donne. Abbiamo una sensibilità diversa e questo si vede nel piatto. Quando un uomo cucina, vuole innanzitutto dimostrare se sa fare questo o quello, mentre ho l’impressione che una donna voglia semplicemente dare piacere. Si tratta più di emozione, cui si aggiunge tecnica, che di tecnica aumentata di emozione. Lo dico con rispetto e ammirazione verso la cucina in pantaloni”.
Certo i sacrifici restano all’ordine del giorno. Per esempio Darroze confessa di aver dovuto rimandare la maternità ai 40 anni, con l’adozione di due bambine vietnamite, perché prima si era consacrata interamente al lavoro, spronata in questo dal maestro Alain Ducasse, che l’aveva avviata presso il Louis XV di Monte Carlo. La prima stella arriva nel 2001, la seconda dieci anni più tardi. Fino alla consacrazione con il titolo di migliore cuoca del mondo da parte dei 50 Best nel 2015, grazie a piatti come l’aragosta al burro tandoori e il gallo cedrone con salsa al whisky e foie gras.
“Conosco colleghe che hanno sempre sofferto di essere donne in un mondo maschile, io per conto mio ho sempre trovato il mio posto. Ma non ho mai voluto essere chiamata cheffe”, dice, lamentando uno sciovinismo ancora vivo e vegeto. “Non è con un titolo che ci si fa rispettare, ma c’è sempre qualcuno che non ci riesce”. Né tantomeno serve alzare la voce. “Quando c’è un problema bisogna essere in grado di controllare lo stress. Non è gridando o lanciando un mestolo che si risolvono le cose”.
Cosa cambierà dopo il covid-19? Darroze ha subito come tutti le inclemenze pandemiche, fruendo degli aiuti di stato e lanciando un servizio di asporto dal suo secondo ristorante parigino, Joia; sembra tuttavia avere le idee ben chiare: il suo modo di vedere le cose è cambiato. D’ora in poi eviterà di utilizzare caviale cinese, per tendere la mano ai produttori francesi che soffrono più dei ristoratori. Darroze ha anzi già cominciato a immaginare la ristorazione del mondo a venire, quando le persone avranno più che mai bisogno di una cucina golosa, che rassicuri.