Sta facendo incetta di premi il suo LuMi a Sydney già miglior ristorante italiano all'estero per il Gambero Rosso. Ecco la storia di Federico Zanellato autore di una cucina contemporanea che fonde l'Italia e il Giappone con i prodotti australiani.
La Storia
Italians do it better, provocava Madonna. Sta di fatto che i nostri giovani cuochi riscuotono sempre più successo all’estero, talvolta in brigate prestigiose, talaltra in solitario e perfino come chef patron. È il caso, fra gli altri, di Federico Zanellato, padovano appena oltre la soglia dei forties, attualmente alla guida di uno dei ristoranti più acclamati d’Australia, LuMi a Sidney, nonché socio di una trattoria nella stessa città, LeO. Vi serve un Nuovo New World che fa sognare.E dire che gli esordi non lasciavano presagire nulla di buono. “Mi sono iscritto all’alberghiero da ‘fancazzista’, perché non avevo voglia di studiare. Sapendo che avrei deluso a morte tutti i miei, perché non portavo avanti l’attività di famiglia nel tessile. La passione è divampata pian piano, lavorando con persone che mi hanno fatto innamorare del prodotto e della sua trasformazione. È successo, dopo un paio di stagioni al mare, quando sono partito per Londra, dove sono entrato nel mio primo stellato, l’Haikin di Stefano Cavallini, e poi al Ritz, santuario della cucina à l’ancienne; ho affiancato Maurizio Morelli e Francesco Apreda. Dopo quattro anni, però, non reggevo più i ritmi londinesi, perché gli orari di cucina erano interminabili, anche 80 ore a settimana, e poi si andava tutti insieme a ballare. Mi sono preso il mio tempo, viaggiando per il sud est asiatico, dalla Tailandia al Vietnam e al Laos, poi ho posato le valigie per la prima volta qui in Australia. Mi sono fermato per un paio d’anni. Sarei voluto entrare dai migliori, Tetsuya o Peter Gilmore, ma con il visto turistico trovavo solo porte chiuse. Tranne quelle dei ristoranti della zona italiana. Io però volevo crescere ancora per stellati, anche a costo di lavorare gratis, quindi sono rientrato in Italia e per 2 anni ho fatto lo chef de partie alla Pergola con Heinz Beck. E ancora due stages, da Ryugin e al Noma. Finché non sono rientrato definitivamente a Sidney”.
“Perché l’ho fatto? Per lo stesso motivo per cui ci ero tornato in vacanza. È un paese che mette insieme tutto quello che ho sempre cercato: qualità della vita, clima, materie prime, ristorazione in crescita, possibilità di creare business da zero in un contesto multietnico e dinamico. Gli australiani poi sono innamorati della cucina italiana: negli ultimi 15 anni la loro è molto cresciuta, grazie a nomi come Blumenthal e Redzepi, che hanno alzato l’asticella, e a chef come Ben Shewry, che ha esplorato gli ingredienti selvaggi, dal coccodrillo all’opossum, e Josh Niland, che ha sviluppato la tecnica di frollatura del pesce. Loro si sentono disconnessi dal mondo, quindi viaggiano tantissimo e sono molto informati. Qua lo stereotipo degli spaghetti Alfredo è archiviato: conoscono benissimo le cose. Basti pensare che al Noma metà brigata era australiana. È la cucina giovane di un paese giovane, in continua evoluzione, dove la tradizione non agisce da vincolo o fardello”.
“È successo che un amico stava aprendo un ristorante di cucina italiana contemporanea, Ormeggio a Sidney, e insieme siamo cresciuti sempre più nell’approccio agli ingredienti e nelle tecniche, con piatti come le linguine all’anguilla affumicata e sesamo bianco, la tartare di canguro ai pinoli tostati e ravanelli, il gelato ai semi di finocchio con torta di zucca e granita al Balsamico.
Finché nel 2014 ho aperto LuMi con mia moglie Michela, biologa molecolare e grande appassionata di vini, che segue tuttora cantina, prenotazioni e front of house. Dove il nome sta per le prime due lettere delle mie figlie, Luna e Mia, ed è ripreso dagli arredi interni, con le luminarie che scendono”.
I Piatti
I coperti sono una cinquantina. Si mangia solo menu degustazione, per una spesa di 200 dollari australiani, pari a 130 euro: comprende qualche snack iniziale, un paio di entrée, una pasta o due, poi pesce e carne, predessert, dessert e petit fours. La chiave è quella di una cucina italiana contaminata, che riproduce la nostra way of cooking attraverso ingredienti quasi esclusivamente locali. “Importiamo pochissimo; via via che costruisco la rete dei miei fornitori, sempre meno. Giusto qualche olio e farina, Aceto Balsamico, colatura di alici e pasta di pistacchio; come pasta secca, quando c’è, Mancini, Gerardo Di Nola o Fabbri.Per il resto tutto il fresco è locale: frutta, verdura, carne e soprattutto pesce, con i crostacei che arrivano vivi. È australiano il miglior wagyu fuori dal Giappone, per la precisione quello di David Blackmore, che è sempre in carta, attualmente il controfiletto alla brace spennellato di koji da sirloin intero, porzionato al momento. Poi mi hanno stregato pesci come l’hapuka, il murray cod di acqua dolce, che è super grasso, il marron, un crostaceo nativo, l’aragosta di acqua dolce e l’abalone. Sono tantissime le specie che neppure conosciamo, ma lo stesso tartufo nero non è niente male”.
“È un pubblico che fa ancora un po’ fatica con i picchi acidi e amari, Gli australiani all’antica poi sono abituati a consumare solo 3 primary cuts, il resto dell’animale non esiste, anche se il mantra nose to tail sta crescendo. Da buon veneto adoro il riso, ma mi sarebbe difficile proporlo qui perché la mia clientela, che è per tre quarti asiatica, non capirebbe; come accade per ingredienti come l’anatra, su cui ha benchmark ben precisi. Per il resto definirei la mia cucina una fusion italo giapponese, che sposa tecniche e sapori. Una cucina italiana passata per il Giappone, che utilizza materie prime australiane. È tutto un melting pot di quello che ci piace, anche perché 8 cuochi su 10 sono giapponesi”.
Ecco allora signature come il Chawanmushi di brodo di Parmigiano, la rapa rossa cotta sotto sale con emulsione di sesamo nero al sifone e formaggio di capra, il fagottino omaggio ad Heinz Beck con ripieno liquido di stagione (per esempio porcini in dashi di segale tostata) o l’Evergreen, predessert balsamico di granita al basilico, meringa alla menta, gelato di shiso verde e gelée al prezzemolo.
Per accompagnarli in cantina riposano 600 etichette selezionate da Michela: tanta Italia e tanta Francia, ma anche novità dal nuovo mondo. Gli asiatici, si sa, amano il naturale, quindi Gravner, Radikon e la nouvelle vague australiana. “Perché qui non è solo shiraz della Barossa Valley, per me imbevibile: ci sono tanti giovani che fanno skin contack, ragazzi italiani o francesi che stanno sperimentando i vitigni dei loro paesi. C’è tutto un movimento di vino naturale, con intervento quasi zero in vigna e pochi solfiti in cantina”.
In assenza di una Michelin australiana, il successo si misura con i 3 cappelli della guida locale, chiamata Good Food, il riconoscimento quale chef dell’anno della medesima testata e di Gourmet Traveller, il premio quale miglior ristorante italiano all’estero da parte del Gambero Rosso e il dodicesimo posto nella top hundred nazionale di Financial Review.
Ma Federico non si ferma: a febbraio ha aperto LeO, in società con Karl Firla, chef patron di un altro noto ristorante cittadino, Oscillate Wildly: si tratta di una trattoria di cucina italiana con menu alla carta e paste fatte in casa, spazio caffè e croissanterie, ubicata nel cuore della city e rivolta alla clientela business e corporate. Mentre è in apertura un negozietto consacrato alla pasta sfoglia, from pie to pastry, chiamato LoDe.
Indirizzo
LuMi Dining Restaurant56 Pirrama Road Pyrmont, 2009 NSW
Phone +61 2 9571 1999
mail: info@lumidining.com
Il sito web del ristorante