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Io sono leggenda: da 50 anni in menu, la tartare di Erminio Alajmo da provare almeno una volta nella vita

di:
Alessandra Meldolesi
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Copertina Tartare Erminio Alajmo

È spettacolare, la tartare di Erminio Alajmo: una nuvola di carne che monta da più di 50 anni sotto la sua doppia forchetta, oggi disponibile nel fine settimana alle Cementine.

La storia

C’era una volta la tartare preparata al guéridon dal maître, protagonista indiscusso del ristorante. Poi sono arrivati la nouvelle cuisine, i piatti sparati ai tavoli dai cuochi in trincea e gli chef in smoking dentro il tubo catodico, mentre i carrelli sfrecciavano in cantina… Non ovunque, tuttavia. Se gli appassionati si sono sentiti orbati delle performance di Erminio Alajmo alla Montecchia, saranno lieti di apprendere che questi continua a officiare il suo rito alle Cementine, alle porte di Venezia, durante il servizio del pranzo nel fine settimana.


Crediti: Lido Vannucchi



Per lui sono quasi 60 anni con la leggendaria coppia di forchette per le mani, visto che ha iniziato nel 1963. “Ho imparato da mio cognato Giovanni Chimetto presso il ristorante Aurora, dove oggi hanno sede le Calandre. Mia moglie Rita aveva appreso qualche rudimento a Udine, presso la Birreria Moretti, da un bravo chef. Era praticamente autodidatta come me, che abitando in città mi sono avvicinato perché un vicino di casa vi lavorava come magazziniere e sono entrato durante le vacanze estive, come commis, in dispensa o con i pizzaioli. Ho fatto di tutto e la passione è divampata, cosicché ho iniziato a studiare. La tartare la facevo già negli anni ‘60 alle Padovanelle di Ponte di Brenta, dove ero segretario, economo e direttore di sala. Poi me la sono portata dietro sempre: è un grande classico internazionale, ma ha un fascino diverso se viene preparata davanti al cliente. Nasce dai cosacchi, che avevano l’usanza di fare intenerire le bistecche sotto le selle, in modo che si impregnassero di sudore, poi le tagliavano e univano un condimento di cipolla, cetrioli e vodka. O almeno così si dice, poi in tanti hanno portato un tocco personale.


Nel 1981 ho preso in mano con Rita le Calandre, che ai tempi era un enobar. Abbiamo inserito l’angolo pasticceria e i clienti dell’albergo, mostrando di gradire, hanno iniziato a richiedere qualche pasta per la colazione. Così Rita ha frequentato dei corsi all’Étoile e insieme abbiamo portato a Padova la pasticceria mignon, fra le altre cose. Ma io continuavo a fare la mia tartara, che poi ho portato anche alla Montecchia”.

La ricetta della tartare di Erminio Alajmo

“La cosa più importante è la carne, che deve essere magra e poco nervosa. Io uso della fassona piemontese, qualsiasi taglio di questo tipo va bene, dallo scamone al roastbeef, ancora meglio il filetto e il controfiletto. Deve essere molto fredda e va battuta al coltello, non passata al tritacarne che la spreme, cosicché poi diventa una spugna. Ne occorrono circa 130 grammi a testaA parte bisogna emulsionare gli altri ingredienti (in tutto sono 16): un tuorlo a testa, del succo di limone, lo scalogno tritato, che preferisco alla cipolla perché più digeribile, i cetriolini in salamoia, non sottaceto, i capperi sotto sale, lavati e spezzettati, l’acciuga, il pepe verde, il prezzemolo tritato, del ketchup, senape, soia e Cognac, sale e peperoncino calabrese. Vanno emulsionati molto velocemente per qualche minuto in una ciotola, per creare una crema, come se fosse uno zabaione. Personalmente uso due forchette, tenendole a mo’ di frusta.


A questo punto si tratta di unire la carne, continuando a montare con le forchette, finché non assorbe il sugo. Poi va incorporato l’extravergine in due tempi, fino a ottenere la consistenza desiderata. Il tempo e le quantità esatte dipendono dai gusti del cliente, se vuole sentire di più la carne o mostra altre preferenze. Chiedo sempre se desidera una tartara leggera, media o piccante, più o meno oleosa e ovviamente se ha intolleranze alimentari. L’accompagnamento è un cuore di insalata riccia condito con olio e limone, carote grattugiate e una julienne di zucchina cruda accanto ai crostini di pane caldo. Può essere un secondo o un antipasto, ma è molto impegnativo ed è bene accompagnarlo solo con un’altra portata. A chi mi chiede il segreto, per cui la mia si distingue, rispondo: olio di gomito. Tanto che ai tempi in cui facevo anche il gelato con la Carpigiani, ho sviluppato la ‘malattia del lattaio’ e da allora faccio al massimo due porzioni alla volta”.


Sta di fatto che ad andarne ghiottissimi sono anche i figli Raffaele e Massimiliano, il quale commenta: “La tartare del papà è estremamente interessante perché al di là della ricettazione ipercodificata, quando viene realizzata da lui manifesta l’intenzione, la forza del gesto, l’esperienza, la gestualità di un maestro di sala che è anche un maestro di vita e un grandissimo padre. È una di quelle preparazioni in cui si evidenzia la differenza nella sensibilità. Ci sono clienti affezionatissimi che non possono farne a meno e le mie figlie stesse riconoscono chi ha fatto la tartara. Dicono sempre: ‘Quella del nonno… Quella del nonno è la migliore’”.


Matteo Bernardi, sommelier delle Calandre, sfodera per l’occasione un vino del cuore. “Con la Tartara di Erminio ho pensato di abbinare qualcosa di insolito… La Lupa di San Fereolo, un vino di Dogliani, un rosato di dolcetto con un po’ di gewürztraminer. Servito intorno ai 10/12 gradi è succoso e divertente, fresco e minerale con una tannicità appena percettibile, per non mettere in risalto la parte ematica della carne cruda, e il tocco aromatico che smorza un po’ il lato piccante”.


Foto: Crediti Filippo Noventa

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