Un piccolo ristorante dal piglio contemporaneo, ma interessato al gesto arcaico e alla materia prima più popolare. Nel cuore di Prato, il microcosmo gastronomico di Niccolò Palumbo e Lorenzo Catucci.
Ristorante Paca
La Storia
Un’allitterazione labiale, quasi assonanza, è quella che unisce due luoghi, l’uno dentro l’altro, antitetici ma figli della stessa terra: Prato e Paca. Il primo, comune italiano e capoluogo di provincia nella Toscana settentrionale, noto ai più per la produzione tessile; il secondo piccolo ristorante dal piglio contemporaneo e artigiano che racconta la Toscana in forma restaurata, ma rispettosa del suo profilo originale.
Considerando che Reporter Gourmet è un web magazine enogastronomico che promuove e valorizza il meglio della ristorazione italiana ed internazionale, ed essendo io un’amante del buon cibo ma per nulla esperta di geografia e storia, le parole che verranno, tratteranno l’Universo Paca, causa o effetto, a seconda dei punti di vista, del magnetismo centripeto della città che lo ospita e dei suoi abitanti.
La storia è facilmente intuibile dall’insegna, Paca, o meglio Pa - Ca, sillabe inizianti i cognomi dei due giovanotti che ne hanno suggellato la concretezza nel vicino 2019: Palumbo (Niccolò, chef) e Catucci (Lorenzo, maître e sommelier). Il primo, toscano doc, si affaccia al mondo dell’alta ristorazione accumulando esperienza sia in Italia -prima alla corte di Francesco Bracali a Massa Marittima, poi a Villa la Vedetta a Firenze e a Villa Crespi da Antonino Cannavacciuolo- che all’estero, da Martin Berasategui.
Il secondo, di natali pugliesi, nasce pasticcere per poi diventare cuoco e uomo di sala a 26 anni. Gira l’Italia in lungo e in largo in alberghi tra la Puglia ed il Veneto dopo una carriera studentesca “secchiona”. I due si conoscono e trascorrono quattro anni di ascesa, nel Chianti a gestire un ristorante con annessa cantina, banco prova decisivo prima dell’avventura pratese.
Una scelta radicale che preferisce alla frenesia delle metropoli, la quiete estatica di un’oasi vissuta quasi esclusivamente dai locals; una scelta ragionata, maturata grazie alla capacità dei ragazzi di sapersi guardare intorno prima di imboccare la strada giusta. “Prato è una città molto avanti e in fermento per l’enogastronomia. La nostra è un’offerta nuova che può facilmente galleggiare e resistere nel circondario, mentre a Firenze magari sarebbe stata inghiottita dai grandi nomi e avrebbe ricevuto poca importanza e visibilità”.
Così mi racconta al termine del pranzo Niccolò, un fiume in piena di idee che potrebbe stare ore a parlare della genesi di un abbinamento, dei momenti trascorsi con la brigata, della sua matta, ma affascinante, idea di togliere il sale dai piatti e ancora di come impiega il grasso che la porchetta di maiale caccia fuori durante la cottura per impastare dei grissini che creano dipendenza appena arrivano al cliente, coperti da un tovagliolo bianco che non ne nasconde i profumi.
Lo scoglio principale? Educare il cliente a un nuovo tipo di cucina. Ma Paca ce la sta facendo, passo dopo passo, modificando gradualmente il menu, rinnovandolo di giorno in giorno grazie all’incisiva mescolanza caratteriale del suo team, impegnato contemporaneamente nel processo creativo del ristorante. Selvatico ma elegante, fine dining ma interessato al gesto arcaico e alla materia prima più popolare. Concentrato, profondo, contaminato e gentile. Questo è Paca, un universo gastronomico talmente identitario da superare qualsiasi categoria.
Il Ristorante
L’ambiente trasmette benessere e tranquillità, una volta varcata la soglia, nascosta tra le vie del centro. Essenzialità è la parola chiave nel descrivere le sale che si succedono, una dopo l’altra, intime nella metratura e nell’architettura dei singoli tavoli, di varie forme e curve, coperti da tovaglie chiare animate da piccole sculture di diverso colore rappresentanti gli “umarells”, in dialetto i pensionati che si aggirano, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono. Una metafora che colta invita alla riflessione, al concedersi e godersi il tempo che si ha, coccolandosi a tavola magari attraverso un percorso degustazione.
Tre sono quelli disponibili da Paca da 6, 8 e 12 portate a cui si aggiunge una carta in continua evoluzione narrata in modo divertente all’interno di un foglio A3+ ripiegato su sé stesso per tre volte. I piatti sono frutto della manipolazione, saggia e calibrata di materie prime raccolte da produttori di nicchia, prevalentemente locali come il vicino Opificio Nunquam per il Gin Only Ju ed il Molino Bardazzi per le farine adoperate nel ricco cestino del pane.
Si passa dalla carne al pesce in un batter d’ali con anche riuscite scommesse mari e monti, ammorbidite da condimenti e cotture più asiatiche, contaminazioni non modaiole ma legate alla storia di Niccolò e all’avere a casa, e anche in brigata, una moglie di origini filippine.
Nel servizio di sala, la freschezza accurata e la professionalità magnetica di Lorenzo sono il perno dell’intera esperienza. Lui, che nelle pause tra un servizio e l’altro, corre in cucina a dare una mano ai ragazzi, non è solo un abile e appassionato sommelier, Caronte enologico che abbina ad ogni creazione il giusto vino ed il giusto calice, ma anche un esaustivo narratore di ricette, preparazioni e cotture. Qualsiasi spezia, temperatura, taglio di carne usate e chiesta dal cliente curioso, lui la conosce e la racconta con carisma.
La sua passione per il vino, lo sta portando negli anni ad ampliare la cantina che ora conta circa 300 etichette a cui si aggiungono gli oli, di molteplici piccoli produttori da tutta Italia, che lui stesso fa girare a tavola declinandoli in più piatti, dal pane al benvenuto a base di ceci.
I Piatti
Si inizia col botto, senza future discese, neppure di un millimetro, nei piatti seguenti, con una batteria di benvenuti dal timbro deciso da mangiare in un boccone.
In ordine di assaggio, disposti a tavola lungo un’immaginaria linea orizzontale, arrivano il cracker alla cipolla bruciata sormontato da un’alice marinata, il taco al pepe nero con mousse di toma vaccina e tartufo nero, il cuscino al nero di seppia ripieno di parmigiano e liquirizia ed infine il macaron al cacao ripieno di patè di fegatini di pollo. Fuori dalla linea, a centro tavola c’è un cestino di bambù che svela un bao caldo ripieno di peposo alla toscana. Il tutto da godere, in un sorsi e morsi ludico e interattivo, con un assaggio di Gin Fizz preparato a partire dal Gin Only Ju di Nunquam, con l’aggiunta di tonica e succo di limone.
I grissini al grasso di porchetta, le chips di patate arrosto, i crackers con farina integrale macinata a pietra Molino Bardazzi con semi di sesamo bianco e nero e il pane di farina di segale tostata fanno il loro ingresso in tavola assieme ad un secondo benvenuto dello chef, emblema della filosofia di Paca: Ceci, ceci, ceci.
Un piatto completo e complesso che ruota attorno ad un singolo ingrediente. Il legume infatti viene usato nella sua interezza: la parte centrale è trasformata in gelato, la parte esterna viene essiccata al fine di ottenere una granella croccante, mentre l’acqua di cottura è montata come fosse panna. A concludere l’opera, un giro d’olio pugliese 100% Coratina dell’azienda Mancino di Gioia del Colle.
Si prosegue con gli antipasti veri e propri. Il primo, omaggio a Lorenzo e alla sua Puglia, è un destro in faccia di pura salinità marinara condensata in un nido di tagliatelle di seppia cruda, in parte lasciata nuda ed in parte osmotizzata con la rapa rossa, avvolte in tavola, da una salsa di latticello, acida e grassa il giusto. La bottarga di Orbetello aggiunge iodio.
Convince ancor di più la trota salmonata della Garfagnana con ’nduja, aringa affumicata e ravanello. Piatto dal minimalismo territoriale con apici concreti di godimento dati dalle uova di aringa affumicata e dall’nduja centellinata nella marinatura a secco del pesce.
Si passa per un attimo alla carne, al cuore di vitello, pastorizzato e tagliato finemente a mo’ di carpaccio, servito con sedano rapa, tuorlo d’uovo marinato e tartufo nero estivo. Un piatto sapido e autunnale, semplice ma godurioso al palato che invoglia al carboidrato. Tra le creazioni più interessanti e riuscite c’è quella del Risotto alle vongole, pernice e yuzu. Un incontro - scontro bilanciato e non stucchevole. Il risotto è perfettamente mantecato, omogeneo ma non eccessivamente compatto, carico di acqua di vongole usata per metà della cottura. La pernice viene trattata ad arte e avvolta da una spuma di vongole che non sovrasta l’intensità del riso, ma lo accompagna con dolcezza assieme alla tinta più agrumata ma non aggressiva dello yuzu.
Vincenti negli equilibri e nelle consistenze anche i plin di anguilla alla brace, melone invernale e lievito di birra, dove lo spessore della pasta, del melone a cubetti e della salsa, della giusta densità, si incontrano in un boccone entusiasmante e non pesante.
Più marini i ditalini di farro Monograno Felicetti, con polpo, paprika e patata affumicata, dove la pasta al dente spezza le consistenze. Perfettamente contestualizzata nella stagione è la pappardella ripiena di fungo porcino con spuma di toma vaccina e pino marittimo. La pasta è nervosa, consistente, quasi croccante perché cotta al vapore. Espediente illuminato che esalta il morbido ripieno di porcini, richiamati anche in cima alla creazione in veste di carpaccio.
“Il piatto che più mi rappresenta è la lingua di vitello, bietolina e colatura d’alici. Un matrimonio eccezionale, semplice ma non scontato che richiede tecnica, soprattutto nell’emulsione di burro e colatura d’alici che avviene senza l’aggiunta di maizena” - mi spiega lo chef, tifoso sfegatato del quinto quarto. E’ l’unico piatto in carta da due anni, non legato alle stagioni. E’ un piatto jolly, dal basso food cost che opportunamente lavorato crea gioia immediata. Oltretutto è senza sale.
Non mangio spesso la lingua, quindi l’affermazione che segue non ha un grande valore statistico. Ma so quando un piatto è buono e quindi mi sento di dire che questa lingua, cotta 8 ore a 85 gradi e poi passata alla piastra a ricordare la più elitaria scaloppa di foie gras, è la migliore che abbia mai mangiato in vita mia.
Calamaro cotto a bassa temperatura e laccato con una salsa bbq all’orientale, lardo di Colonnata e misticanza
Non c’è un piatto che scende di livello. Anche il calamaro cotto a bassa temperatura e laccato con una salsa bbq all’orientale, lardo di Colonnata e misticanza e l’astice con carciofi e salsa al pepe verde sono creazioni che meritano la sosta da sole, vigorose, quasi vichinghe, ma comunque raffinate. Ed il manico poderoso si ripropone anche nel cervo salato in dolce forte con panforte e scorzonera, geniale anello di congiunzione tra dolce e salato.
Il reparto dolce, così come parte della panificazione, è affidato al fratello di Niccolò, Gabriele, giovane ma promettente. Le sue sono opere belle, articolate e soprattutto golose, degna chiusura di un pranzo di alto livello.
Mandarino, nocciola e yogurt sono i tre protagonisti di un dessert autunnale che resetta il palato e lo fa tornare a casa felice. La spuma e il gelato di yogurt rinfrescano così come il gel di mandarino, mentre il crumble di nocciola da vigore al tutto.
Sempre ode all’autunno, sempre bello e buono è il mix di cioccolato fondente Noalya 85%, castagna, ricotta e pinoli dove la mousse alla castagna, la ricotta vaccina alla sambuca, la ganache al cioccolato fondante ed il crumble salato danno un tono e un vestito adeguato al nobile marron glacé.
E se pensate che sia finita, vi sbagliate. Anche la piccola pasticceria è architettata al meglio, tra macarons, gelatine, cremini ed un fantastico maritozzo ottenuto a partire dalla fermentazione dei mirtilli, usati anche sottoforma di composta assieme alla panna montata d’alpeggio come farcitura.
Indirizzo
Paca
Via Frà Bartolomeo, 13, 59100 Prato PO
Tel. 05741820222
Sito web