Un mare oltre il pesce, dove il vegetale di sabbia incontra quello subacqueo e le erbe aromatiche il bouquet delle alghe, in un match di mineralità e clorofille. A Fiumicino, l’archeologia mediterranea di Gianfranco Pascucci.
Pascucci al Porticciolo
Il ristorante
È famosa in tutto il mondo per via dell’aeroporto, Fiumicino, scalo poco romantico e ancor meno sostenibile, dove però i romani da sempre si fermano a mangiare il pesce fresco, freschissimo, praticamente surgelato. Un ecosistema fatto di dune e biodiversità, fragile e prezioso, brutalmente violato dai rombi e dagli scarichi, che ha trovato nella gastronomia una via di riscatto e una forma di resistenza micidiale.
È un dato di fatto che dal mare, insondabile, scuro, misterioso, gli chef negli ultimi tempi hanno pescato le cucine più coerenti, personali e articolate, senza dubbio per la particolare debolezza della tradizione e del classicismo in materia. Per esempio Gianfranco Pascucci, forse il suo migliore interprete italiano allo stato attuale, fiumicinese che in vent’anni, con la moglie Vanessa in sala, ha maturato uno stile tutto suo, fatto di gesti e di sapienza, poroso e attento. From scratch, quale autodidatta totale. Un po’ come i gasteropodi scolpiscono la loro casa di calcare usando il tempo, le stagioni e i movimenti quotidiani.
“Da figlio di dirigente INPS, non avevo addentellati in famiglia, mi sono anzi scontrato con un certo scetticismo, peraltro comprensibile. Prendere questo ristorante da zero con Vanessa è stata una bella scommessa. Abbiamo iniziato copiando quel che vedevamo in giro e non è che venisse tanta gente. Così abbiamo pensato che fosse meglio proporre qualcosa di personale, abbiamo assunto collaboratori giovani che avevano voglia di spingere, come noi, ed è stata la prima svolta. Nel frattempo, giravamo tanto. Fulvio Pierangelini, in particolare, mi ha fatto riflettere, non tanto per la cucina, quanto per l’esempio di un locale familiare di successo. Devo dire che mi ha dato la carica. Abbiamo iniziato a diversificare leggermente i piatti, a rendere il servizio più smart e subito il lavoro è cresciuto. Era diventato un locale di moda, ma noi ci sentivamo inappagati, perché non potevamo spostare una virgola di ciò che facevamo”.
“È stata Vanessa un giorno a dirmi: ‘Corriamo il rischio di fare qualcosa di nostro’. E qualche cliente lo abbiamo perso. I coperti sono calati da 100 a 35 e le guide hanno iniziato a notarci, Veronelli, il Gambero Rosso, l’Espresso; finché nel 2012 non è arrivata la stella Michelin, che ha portato con sé la disponibilità di personale motivato e una diversa tensione. Ma nemmeno per un secondo mi sono chiesto se abbandonare il pesce: sono di Fiumicino e sono un surfista, il mio mondo sono il mare e la sua ristorazione”.
“Poi sei anni fa è iniziato il lavoro sulle dune. All’oasi di Maccarese c’è una spiaggia dove faccio surf. Ed è un polmone verde, un’altra Fiumicino dove senti dei profumi… l’alloro, il rosmarino, il mirto, ma non quelli ‘normali’. Ho iniziato a confrontarmi con il WWF sul tema dell’erosione e mi sono chiesto: ‘Che sapore ha una duna?’ Un discorso che ho portato avanti al lago di Burano, con il lavoro sui muggini in tempi non sospetti, prima che la sostenibilità diventasse una moda. A questo signore che aveva i campi sulla via per Ostia antica, fra i cocci delle anfore, ho chiesto: ‘Coltiviamo qualcosa insieme?’ Perché volevo pescare anche a terra, raccogliere quello che serve, quando serve”. Il risultato è un microcosmo a bolla, da cui arrivano le erbe ripiantate delle dune e gran parte degli ortaggi; più il pesce dell’asta di Fiumicino, con qualche integrazione da Anzio e Civitavecchia.
“Ma ho superato da tempo la preclusione verso il pesce degli altri, perché il mare è lo stesso e sento lo stesso rumore, che amo. Quindi perché non usare una bella ostrica, anche italiana, o una capasanta che arriva viva, come una primizia, nel suo momento migliore?” Il risultato è un mare oltre il pesce, dove il vegetale di sabbia incontra quello subacqueo, le erbe aromatiche il bouquet delle alghe in un match di mineralità e di clorofille, che lascia presagire svolgimenti futuri ancor più radicali, in ogni senso della parola. “Muto come un pesce”, dice la vulgata; ma bisognerebbe dire “anosmico come il mare”. Il quale invece sfregandosi sulle dune scopre profumi arroventati, senza perdere integrità.
I piatti
I degustazione sono due: il Classico e Profondo mare, carta bianca che può contenere portate estemporanee. Procede secondo gli usi dal crudo al cotto, passando per antipasti, primi e secondi. In accompagnamento la carta firmata dal sommelier Mirco Rebuzzi punta i riflettori sui vini di mare e sulle loro sapidità.
Gli appetizer sono un carosello di crunch esatti e giocosi: la stella marina con salsa tonnata e capperi, la cialda ai porcini con maionese di broccoletto e bottarga di tonno, la conchiglietta di pasta madre con gamberetti e shiso, il cavalluccio tipo carasau con mandorle fermentate e peperone crusco. Chiude la clamorosa bottarga di pesce spada maturata da Pascucci nella cera, tanto evoluta nel gusto quanto scioglievole nella testura. “Perché non vorrei che la voga del pesce frollato ci facesse dimenticare le nostre maturazioni tradizionali, sotto sale o nella cera”.
È già ottimo il primo antipasto, con la spugna di erbe aromatiche, preparata in modo particolare affinché possa essere imbibita nell’acqua delle cozze a mo’ di babà e passata sulla scritta “Mare”, disegnata con una polvere mista di alghe, carapaci e sale per il profumo della battigia; più qualche alga fermentata, emulsione di ostrica e salsa verde per un sospetto di grassezza. Pascucci l’ha pensato come un gioco per allentare la tensione con l’ospite, invitato al mare; ma in bocca è un uragano di acqua e sale che spazza via il superfluo.
Più comfort ma sempre squisita l’ostrica tarbouriech italiana, cruda e grassa, coperta di spuma di topinambur tiepida spolverizzata di liquirizia, per un effetto mari e monti dolce e nocciolato, chiuso dalla leggera iodatura della spezia.
Ma il sale torna protagonista nel pesce spada marinato, alternato al fagiolino di mare. “Mi interessava il morso, perché sembra l’ortaggio di terra, ma sa di alga, in armonia con la testura prodotta dal taglio sul pesce. Sopra ci sono le nostre erbe: quelle che troviamo insieme all’ultimo friggitello per il vegetale. E poi un brodo di ceci in cui facciamo aprire le cozze, addensato col collagene del pesce, e un goccio di olio verde per una salsa che sa di orto e di mare”. Dove il rispecchiamento fra le diverse mineralità, nell’assenza o quasi di grassi, ha la purezza di un cristallo che scroscia.
Si chiama enantiodromia, nel linguaggio filosofico, la corsa all’opposto. Ed è quello che accade con il piatto successivo: gamberi rossi alternati ai bianchi, per diverse sfumature di dolcezza, marinati in colatura di alici, olio al limone e cera d’api stemperata in un brodo addensato al grasso di pecorino, più yogurt locale salato al latticello e uova di ricciola che concorrono alla sensazione “aposa” di polline.
Si ricavano dalla sacca aperta, appena saltate in padella e colorate con curry e curcuma, per un ricordo anche di couscous. Ma nella stratificazione ben dosata di dolcezze il pensiero va all’archeologia mediterranea del pesce al miele.
Il calamaro è un virtuosismo tecnico, nato dal desiderio di perfezionare la cottura di un ingrediente identitario, che dipana un’inedita testura sfogliata. “Il nostro credo sia il migliore del mondo, eppure non c’è niente di più abusato, come provenienza e come elaborazione. Io volevo valorizzarne la dolcezza e la struttura. Quindi lo sciocco termicamente in acqua calda e poi fredda, lo taglio per eliminare la pelle interna coriacea e lo chiudo a rosa, grigliandolo solo su un lato, perché la maillard ci sta benissimo. Dentro resta quasi crudo, visto che è un mollusco termoresistente, che non trasmette il calore. Uso le erbe di macchia, abbino una radice fermentata e un brodo di calamaro ricavato dagli scarti, che è umami puro. Più un tentacolo in tempura, per citare la frittura che si fa ovunque a Fiumicino, con la pastella spessa che protegge la carne, quasi lessa nel senso buono, e del totano sopra a mo’ di lardo con il lardo vero”.
I primi non sfigurano. È ottimo il risotto da Carnaroli della Riserva San Massimo, cotto in acqua di pomodoro verde con la colatura di alici per il sale, la pasta di acciughe e capperi sotto, il plancton sopra a tendere il gusto fra umami e acidità. Lo guarniscono lamelle di astice (o lingue di riccio) e spremuta di teste crude di gamberi; ma neppure il nobile crostaceo riesce a essere protagonista, nel match fra vegetali di terra e di mare che si ripete, sempre nuovo. Rizzuti qui mesce l'etichetta ischitana Kalimera dell'azienda Cenatiempo, da un vigneto di biancolella centenario che cade a terrazzamento su una vallata a ridosso del mare. Nel calice il vino si esprime con un’originale doppia mineralità: iodata da un lato e più scura dall'altro.
Poi Un mare di plastica, piatto di denuncia che è anche un monoingrediente. “Era naturale associare l’inquinamento al nero, che riconduce al petrolio, quindi alla seppia. Da lì anche la plastica riprodotta con l’obulato, che per la mia generazione non è solo qualcosa di negativo, ma racconta delle storie, può essere la pallina da pingpong oppure il bambolotto".
"Il problema dello spaghetto al nero classico è che in cottura si perde lo iodio. Quindi lo preparo a modo mio, con un brodo di seppia, un burro di seppia e il nero aggiunto alla fine, a crudo”. Su un lato, geniale, la julienne di seppia cruda al rafano che pulisce senza uscire dal recinto monografico.
Tocca corde diverse, più arcaiche, la testa di ricciola, segreto degli iniziati. Appesa in frigo per 3 giorni con un rub e asciugata con la ventola, viene cotta al barbecue e guarnita con patate acidulate, un millefoglie di verza e salse a base di collagene del pesce, per una sensazione quasi di bollito, specialmente nel taglio della sottogola. Sposa uno Chablis premier cru Cote de Lechet dell'azienda Danielle Etienne Defaix. Affinato per 15 anni, è un vino con una forte impronta minerale, che gestisce al meglio la potenza del piatto.
Dopo il gelato di dragoncello con gelée di mela verde, chiude il “cremino” rinfrescante di namelaka di limone e crema di nocciola.
Foto di Lido Vannucchi
Indirizzo
Ristorante Pascucci al Porticciolo
Viale Traiano 85 – 00054 Fiumicino (Roma)
Tel: 329 4603566
Mail: info@alporticciolo.net
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