“Non voglio che la mia sia una cucina divisiva, che esclude chi si alimenta diversamente. Il senso della cucina è l’apertura”. Parola di Pietro Leemann, che con la sua “rivoluzione verde” ha fatto scuola sin dal 1989. E oggi rimane leader indiscusso di un’alta ristorazione etica dove salute fa rima con gusto.
Ristorante Joia
La storia
1989: l’alta cucina vegetariana, oggi sulla bocca di tutti, ha una data di nascita ufficiale. E anche un luogo, il Joia di Milano, aperto da Pietro Leemann con la complicità di qualche amico. A certificarlo è una stella Michelin datata 1996, prima in Europa e puntualmente confermata fino a oggi.
Svizzero come i pioneri del vegetarianesimo italiano, compreso il primo ristoratore nel 1890, Leemann era all’epoca un giovane cuoco dal curriculum prestigioso, referenziato da due mostri sacri, Frédy Girardet e Gualtiero Marchesi. “E per me è stato fondamentale lavorare con entrambi”, rievoca. “Da Girardet ho trovato una grandissima tecnica, la capacità di ricreare costantemente la perfezione attraverso il massimo rigore e una brigata numerosa, composta di 25 cuochi. Mentre Marchesi era più intellettuale. Dal primo ho girato la partita della pasticceria, delle verdure e dei pesci; dal secondo i primi e i secondi. Ma per entrambi il vegetale rivestiva una grande importanza".
"Ricordo che Girardet si recava personalmente dai contadini, con cui intratteneva relazioni strettissime, per scegliere e raccogliere gli ortaggi già nel 1983; erano sempre presenti sul piatto, anche se alla francese, opulenti e ricchi di grassi. Marchesi invece aveva mutuato l’amore per la verdura della cucina italiana. Adorava la carne ed era bravissimo a sceglierla al mercato, ma molti antipasti e primi piatti ne erano privi. Io stesso ho contribuito a fare evolvere la sezione vegetale, creando piatti o mettendo il contorno in risalto, perché ero già diventato vegetariano”.
Di fatto il lascito di entrambi è cospicuo. La tradizione classica nella sapiente padronanza del gusto, che evita alla cucina vegetariana un’esiziale deriva ospedaliera; l’originalità marchesiana nella riflessività, nel senso estetico e formale, nella curiosità insaziabile e nel desiderio permanente di confronto con le culture altre, di impronta umanistica o artistica. “Ho dialogato con Marchesi fino all’ultimo. Lui ripeteva che un cuoco doveva brillare in tutto, ma quando la figlia Paola è diventata vegetariana, ha capito la valenza di questa scelta fino in fondo. Lo sviluppo estetico del Joia tuttavia è peculiare, non si tratta di un design standardizzato, ma di un’interpretazione formale del piatto. Io peraltro so cucinare molto bene la carne, non farlo è una mia scelta, una rinuncia alle mie conoscenze, una forma di sacrificio a quella che per me è una missione”.
A unire Leemann a Marchesi è anche lo sguardo rivolto a Oriente. “Era affascinato soprattutto dal Giappone, paese da cui proveniva il direttore di sala. Amava oltremodo quell’estetica e proprio da lui mi sono fatto aiutare a trovare qualche aggancio, quando finalmente ho deciso di partire in viaggio. E al mio rientro ha voluto che gli raccontassi ogni cosa. Erano tempi in cui cominciavo ad annoiarmi e sentivo di non potere andare oltre, avevo voglia di scoprire e approfondire, ma in giro c’era solo nouvelle cuisine, i ristoranti si assomigliavano tutti, con qualche moda ricorrente. In Asia sono rimasto quasi tre anni, studiando la gastronomia, ma anche le lingue e le culture. In Cina ho scoperto quattro cucine totalmente diverse; in Giappone insegnavo in un alberghiero cucina italiana e francese; in India infine ho portato avanti la mia ricerca spirituale".
"È un paese dove chiunque aspira a diventare yogi, c’è sempre una dimensione spirituale molto importante, più di quella materiale. Gli induisti poi non mangiano carne da millenni, nascono vegetariani, quindi sanno benissimo come alimentarsi in modo equilibrato. Io ero già vegetariano, ma ho ricominciato a mangiare la carne e il pesce per capire più a fondo quella cucina e quella cultura. Tanto che li so cucinare anche alla maniera cinese, che è più completa della nostra. Ma non lo faccio. Quando infine sono rientrato in Italia, sono tornato vegetariano e ho aperto il Joia”.
L'albero della vita- Bastoncino di carota, ketchup di datterino e crema di cavolfiore al pepe di Timut
Il ristorante
È l’idea dirompente di fare incontrare due mondi e due fasi della propria vita, ma anche diverse tradizioni culinarie. Di fatto quella di Leemann è una cucina eclettica, ma calata su ingredienti, gusti e simbolismi italiani. Vedi la pasta, che non manca mai nella costruzione di un menu canonico, anche per rassicurare l’ospite. “Mi piace raccogliere spunti da culture diverse. L’interesse della cucina è sempre stato nello scambio, perché Marco Polo andando in Cina ha riportato la pasta; dal Sud America ci sono giunti tantissimi vegetali, quando qui scarseggiavano. Il senso della cucina è l’apertura”.
Tutt’intorno, nel frattempo, il mondo è cambiato. “I primi vegetariani obbedivano a istanze filosofiche o salutistiche; ora le persone sono diventate più esigenti, grazie a medici come Veronesi e ai tanti scandali che si sono succeduti. L’emergenza ambientale ha spinto i giovani a ripensare la propria alimentazione, scoprendone la funzione sociale. Quando ho aperto il Joia passavo per una persona strana, oggi non più. Ma non voglio che la mia sia una cucina divisiva, che esclude chi si alimenta diversamente”.
Per Leemann il cibo non è solo carburante per il corpo, ma uno strumento per migliorarsi e per cambiare, in chiave personale e sociale, non senza implicazioni religiose, considerato il modello dell’eucarestia con la transustanziazione del profano in spirituale. Il percorso, tuttavia, non ha nulla di pedante o artificioso: si dipana anzi nella massima piacevolezza e levità, punteggiato com’è da momenti di gioco. Sono piatti che parlano di equilibrio e armonia, salute e spiritualità, ma senza indottrinamenti. Conta l’esperienza, il potere del cibo.
“Voglio che la cucina del Joia accenda scintille e apra dimensioni, senza bisogno di parole”. A offrire qualche indizio sono i nomi evocativi dei piatti, che concorrono alla completezza della forma di espressione. “Perché l’ospite mangia un’idea calata in una dimensione spirituale e culturale; poi intervengono una forma estetica che è artistica e una forma poetica allargata alla descrizione. Si tratta spesso di haiku, formulati come le poesie zen che stimolano la meditazione”.
Cruciali restano il piacere e l’appagamento sensoriale, da raggiungere attraverso il gusto, che nei piatti del Joia non manca mai come forza attrattiva. Poi ci sono gli aspetti nutrizionali, oltre il bilancino di nutrienti e calorie. “Seguo tre scuole: l’antroposofia, l’ayurveda e la dietetica cinese, che non considerano solo l’aspetto fisico, ma anche quello evolutivo e spirituale, aiutando a stare bene in senso lato. In Giappone dopo l’abate la persona più importante è il cuoco”.
I piatti
Il paniere sarebbe vegano, senza una piccolissima parte di formaggi a caglio vegetale, anche in omaggio alle origini svizzere dello chef. “Non voglio mostrarmi troppo talebano, ma essere accogliente verso chi ha altre abitudini, anche per avvicinarlo. Io stesso mangio e seleziono formaggi da contadini, dei quali conosco i metodi di allevamento e le lavorazioni”. Sul piccolo plateau affiancano una tipologia vegan autoprodotta, a base di frutta secca o legumi, per esempio mandorle e miso in funzione di starter. Mentre ai vegetali provvedono quotidianamente tre aziende bio, dalla Svizzera arrivano le erbe e da Natura Sì i complementi.
Il risultato è un’esplosione di colori, grande atout del vegetale nel piatto. Seguendo la stagionalità, variano dai cromatismi vivi dell’estate a quelli pastello della primavera, fino alla gamma di arancioni e gialli dell’autunno e dell’inverno, via via che i piatti si scaldano e si arricchiscono. Vedi il carpaccio di radicchio di Chioggia appena sbollentato al vino rosso, con qualche goccia di Balsamico biodinamico dell’età del ristorante, nato proprio al Joia, e una grattata di Grana cagliato al carciofo, sempre bio.
Carpaccio di radicchio di Chioggia cotto nel vino rosso e condito con una riduzione di aceto balsamico di Modena
Allo scarto zero sono funzionali la formula del pranzo, il cosiddetto “piatto quadro” a 25 euro, utile per fare girare ridondanze ed eccedenze di stagione, e specifiche portate studiate nella messa a punto del menu. Per esempio, Pianeta verde, dove il foie gras è rimpiazzato da un noix gras di paté di noci, guarnito con mela arrostita, senape e insalata di avocado per l’ulteriore grassezza, finalmente ricoperto da una cupola di verza croccante, ricavata da una foglia esterna, mentre il cuore fermentato va altrove. “Perché la cucina vegetariana è celebrazione del pianeta”.
Gialla, come le stagioni fredde, è la fonduta di anacardi fermentati allo zafferano, che nelle sembianze casearie chiama il tartufo pregiato di Norcia del risotto con crema di sedano. “Perché nel piatto usiamo spesso ingredienti nascosti, che creano profondità. Si chiama ‘L’Ombelico del mondo’ perché il riso è un alimento che lega tutte le culture, ma è centrale soprattutto in Oriente e in Italia. È vegetale, ma ha tantissimo gusto, con un clin d’oeil a Jovanotti, che è vegetariano. E ha la forma di uno yin e yang, evocativa di elementi che entrano in contrasto”.
La carne ovviamente è assente, ma non manca un’evocazione di secondo piatto nel tempeh, sorta di mattonella di legumi fermentati glassata con salsa al vino rosso, formaggio di mandorle, verdure e coccio di tuberi a bassa temperatura.
Umami (tempeh con salsa al vino rosso, formaggio di mandorle, verdure e coccio di tuberi a bassa temperatura)- Crediti Lucio Elio
Come nel caso dell’uovo apparente, nessun mimetismo, ma uno studio formale che mantiene le proteine al loro posto. “Il tempeh non è una finta carne, ma qualcosa di artigianale e salutare. Neppure la sembianza è imitativa, visto che è un semplice quadrato, forma pura per eccellenza insieme al cerchio".
"La cosiddetta carne coltivata invece non mi interessa, perché alla cucina vegetariana non manca nulla e perché è un alimento altamente processato, di cui non sentiamo il bisogno. Nel senso che chi cerca la natura vuole una maggiore semplicità, non sofisticazione. E nel campo delle proteine restano ancora potenzialità da sviluppare, soprattutto nei fermentati”.
Indirizzo
Ristorante Joia
Via Panfilo Castaldi 18- 20124 Milano
Tel. 0229522124
joia@joia.it
Sito web