Se è così difficile sedersi alle sue tavole, la cui lista d’attesa si dipana per molti mesi, è anche per una questione di orari. Lo chef Luis Alberto Lera, infatti, chiude 3 giorni a settimana per andare a caccia, procurandosi personalmente la miglior selvaggina della zona.
La notizia
Mentre tanti chef scommettono sul vegetale, capeggiati da Daniel Humm, c’è chi carica la doppietta e mette nel mirino la selvaggina. È il caso di Luis Alberto Lera, classe 1977, alla testa del ristorante Lera, evoluzione della maison familiare a Castroverde de Campos. Premiato con una stella Michelin nell’ultima rossa iberica e prossimo a calcare il palco di Madrid Fusiòn, dove presenterà una pernice, l’astro nascente di Castiglia e Leon somiglia all’ultimo tassello di un nuovo scenario gastronomico, segnato dal riscatto della periferia e del prodotto perfino nella patria dell’avanguardia mondiale.Se è così difficile sedersi alle sue tavole, la cui lista d’attesa si dipana per molti mesi, è anche per una questione di orari, vista la chiusura dal martedì sera al giovedì a pranzo. Il motivo? “Prima facevamo due giorni di fermo, ma io avevo bisogno che ce ne fosse uno utile per cacciare, perché sono cacciatore. Quindi giovedì o domenica, ma non poteva essere domenica”. Ciò non trattiene tanti colleghi dal montare in macchina, nonostante il ristorante sia situato in mezzo al nulla, lontano da qualsiasi attrazione, a 90 chilometri dalla prima città vera.
Di fatto Lera è uno chef’s chef, punto di riferimento per la categoria, per l’originalità della proposta non meno che per il coraggio di smarcarsi. Già i genitori, stabilendosi nel 1973 nel deserto della “España vaciada”, svuotata dall’emigrazione, avevano compiuto un azzardo, raddoppiato dal figlio, quando ha deciso di rilanciare il ristorante e poi l’albergo, attirando torme di viaggiatori gourmet.
A quei tempi Lera aveva l’incoscienza di un venticinquenne. “Era il 2004 e ho passato 4 anni molto duri, ma mi è andata bene perché ho azzeccato le mie mosse imprenditoriali e trovato la mia strada culinaria. Ho iniziato con una cucina ricca e buona, molto più commerciale di quella che faccio ora. Mi rendevo conto di subire molte influenze, ma non mi sono mai sradicato da tutto questo. La cucina tradizionale è sempre stata in cima ai miei pensieri e ho finito per scommettere su di essa. A quei tempi mi davano del pazzo. Ed è vero che si trattava di una scommessa audace, ma è anche un punto di autenticità e di identità. In questo momento la sfida è quella di differenziarsi. Se tutti allestiamo ristoranti a Madrid, c’è una cucina tradizionale e popolare che si perde. Inoltre, c’è un elemento di egoismo. Sono di qui e desideravo fermarmi. Ho passioni eminentemente rurali come cacciare e cavalcare. Sono molto radicato. Non mi sento paladino di nulla, ma se puoi dare un po’ di vita alla tua zona, tanto meglio”.
“Lera non avrebbe senso lontano da Castroverde. La mia cucina si capisce mangiandola qui. Se sei un cuoco e padroneggi la tecnica, puoi cucinare ovunque. Ma con i miei prodotti, talvolta due colombacci, talaltra tre lepri, posso farlo solo qui”. Tanto che nonostante la fama incipiente, al momento non si profilano nuovi progetti all’orizzonte. “Posso stare in una cucina sola. L’unica cosa che mi interessa, è che la gente che viene mangi bene e sappia che ha mangiato qui. Forse Lera fa una cucina di ricerca, non di creatività ma di essenzialità. Si tratta di esaltare il prodotto che ci dà la terra. Poi c’è la ricerca sulla cucina popolare, degli antenati, che morirà se nessuno la pratica. In questa ricerca compaiono tecniche più o meno d’avanguardia oppure tradizionali, dipende. Mi sento moralmente obbligato a fare qualcosa per la mia terra, che sta morendo”.
La caccia, insomma, oltre che una passione è quasi un concept. Ma come proporla tutto l’anno, se la stagione dura da ottobre alla fine di gennaio? “Quello che facciamo da Lera è congelare la selvaggina per arrivare fin dove possiamo. Poi, quando finisce, dobbiamo adattarci a quel che troviamo. La cosa buona della cacciagione è che è squisita, quella cattiva è che non si trova al supermercato. Alla caccia maggiore la catena del freddo fa bene perché rompe le fibre, a quella minore neppure fa male. Bisogna solo fare attenzione a non prolungarla troppo per evitare l’irrancidimento”.
Fonte: 7canibales.com
Foto di copertina: Crediti Alfredo Caliz