Una sala anni ’30 piena di opere d’arte, una giovane promessa del fine dining e un menu fuori dal coro, che rompe gli schemi della ristorazione d’hotel. La nuova creatura gastronomica del Chapter Roma parte col piede giusto grazie all’estro dello chef Alessandro Pietropaoli.
Campocori- Chapter Roma
“Un ristorante è una sorta di rappresentazione vivente, nella quale i commensali sono i membri più importanti del cast". Si può essere o meno d'accordo su come Warner LeRoy, rampollo di una nota dinastia di produttori cinematografici, inquadrava la macchina gastronomica americana dalla sua privilegiata cabina di regia alla metà del secolo scorso. Su una cosa, però, aveva ragione: un ristorante nel pieno del servizio funziona esattamente come il set di un film. E se il set punta sul realismo per catturare l'attenzione degli spettatori, lo show ha buone probabilità di coinvolgerli.Accade qualcosa di simile nella sala anni ‘30 di Campocori, la nuova creatura gourmet del Chapter Roma, fra gli esemplari più interessanti (e meno prevedibili) della biodiversità alberghiera capitolina. Mancava, nel composito progetto dell'imprenditore Marco Cilia, un'appendice culinaria intonata al resto dell'hotel e insieme dotata di vita propria, capace di mixare design e fine dining con un approccio fuori dal coro. Da qui il locale, un salotto contemporaneo calato in quello spicchio di romanità underground che è l'antico ghetto ebraico, laddove un tempo sorgeva la chiesa di Santa Maria in Campo Cori, il cui nome riluce sornione sulle vetrate dell'insegna.
Il ristorante
L'interno è un patchwork d'arte e architettura che non rischia certo di passare inosservato. C'è il mattoncino nudo a richiamare lo scheletro dell'edificio, il marmo elegante scaldato dalle lampade al centrotavola, la poltroncina comfort in velluto; ci sono gli archi che dilatano l'ambiente e il ferro lavorato in memoria dei "calderari" -alias fabbri- di una volta. A incuriosire, però, è soprattutto il dialogo fra arredi e ritratti alle pareti, firmati rispettivamente dall'architetto sudafricano Tristan Du Plessis e dal fotografo bosniaco Haris Nukem, due geni ribelli della visual art che hanno saputo condensare l'atmosfera dei Supper Club statunitensi in un’expo di graffiante eleganza.
Difficile ignorare i primi piani large size, sorta di provocazioni a tinte forti capaci di distogliere l'attenzione dal tavolo durante la cena. Ma anche lo staff sa il fatto suo: a pochi giorni dal debutto, si muove già sicuro fra intrattenimento e racconto dei piatti, smontando il mito della formalità estrema tipica dei luxury hotel. Merito del general manager Jacopo Arosio, che ha improntato l'accoglienza su un feeling naturale col pubblico, senza eccessi di zelo o formule di rito.
Ai fuochi, invece, c'è il giovane chef romano Alessandro Pietropaoli -scuola Villa Crespi, con tappe di spicco da Vito Mollica, nel ristorante La Veranda del Four Seasons Hotel di Milano, ed Antonello Colonna, passando per i grandi brand dell’hospitality in Costa Azzurra e al Cairo- tornato a casa con un piano d'azione ben preciso.
La cucina
“Durante la pandemia ho iniziato a riflettere sul futuro del fine dining", esordisce. "Il mio obiettivo è quello di spezzare vecchi automatismi per trasmettere al cliente un messaggio, oltre il piacere della degustazione. Da due maestri come Mollica e Cannavacciuolo ho imparato non solo a strutturare le ricette con un tocco personale, ma anche ad ascoltare e incoraggiare il resto del team, perché nelle squadre affiatate germogliano le idee migliori. Dico spesso che il menu non dev'essere un ripescaggio di esperienze pregresse, ma un'intersezione di prove sul campo: più che ricordare cosa facevo a Villa Crespi, oggi adotto lo stesso modus operandi, costruendo giorno per giorno la mia identità".
Poi c'è quello che Alessandro chiama "switch mentale", ossia "porre enfasi in una ricetta, legandola ad un racconto, e stimolare gli ospiti con creazioni scomposte, da bere o afferrare con le mani abbandonando improvvisamente le posate". Un'empatia gastronomica che emerge anche dalla scelta di inserire in carta numerose portate prive di glutine e lattosio o alleggerite nell'apporto nutrizionale ("chi è a dieta ha il diritto di godersi una cena gourmet esattamente come gli altri commensali").
Il menu di Campocori, dunque, alterna intermezzi ludici a piatti di maggior struttura, tutti fondati sul binomio radici-ricerca: "Uso grandi prodotti italiani senza timore di abbinarli a quelli orientali". Un esempio? “Il risotto al pino mugo con coscette di rana e salsa daidai, un condimento giapponese a base di agrumi". Non mancano Crudi di manzo mantecati al miso, Baccalà con dashi di alici e un Agnello laziale accompagnato da crema inglese all'aglio e alghe. Ma c'è di più.
I piatti
La carta, agile e completa, consente di svagarsi a un prezzo "democratico" (55 euro per 4 portate a scelta) o di concedersi una degustazione più ampia (5 piatti a 70 euro; 8 a 95). Convince l'entrée, una girandola di bocconi dinamici che ammicca al mondo della pasticceria, come nel Conetto farcito con ricotta di pecora, miele e sfilacci di cavallo o nel Bon bon di carbonara, allegoria della nota triade capitolina -uovo, pecorino, guanciale -dal sapore netto e deciso. Segue una variante proteica del Ferrero Rocher -fuori cioccolato, dentro foie gras- che, così come il Mini-plumcake a base di zenzero, soia e burro bruciato, prende le sembianze del dessert invertendo il rapporto sali-zuccheri.
Si mangia di gusto l'Animella e cardoncelli, epurata delle note amare ed arrostita lentamente in padella fino a glassatura; la accompagnano briciole di pane croccanti, "a imitazione dei crostini con burro chiarificato, che in Francia vengono spesso accostati a tagli di carne simili", spiega Alessandro. Oltre al fungo, c'è pure un cappuccino ottenuto dagli scarti di lavorazione, coccola setosa che valorizza l'ingrediente nella sua interezza.
Capitolo primi, lo chef propone il Tagliolino aglio, olio e peperoncino con ricci di mare, bufala e guanciale. Un piatto esteticamente riuscito che, però, all'assaggio risulta ancora un po' "acerbo" e meno equilibrato delle pietanze successive. È infatti con i secondi, che Alessandro mette a segno una doppietta degna di nota, presentando i classici del fine dining in chiave pop.
Così, ad esempio, il Rombo viene cotto direttamente in crepinette (la rete del maiale, a sua volta rivestita da fiori di zucca) per ridurre leggermente la quantità di burro, spostando il focus sull'ortaggio. Il tocco in più è dato dall'accostamento fra salsa alla mugnaia, molto simile a un fondo di carne, e verza fermentata, "che ho imparato ad apprezzare a Milano e Bergamo, patria della casseoula. In questo caso la scottiamo brevemente sul barbecue per conferire al piatto acidità e una nota leggermente smoky".
Bella anche l'idea di convertire il servizio del piccione in un piccolo "rito trasgressivo", dove il petto, succoso dentro e fragrante all'esterno, cede il passo a una bruschetta di mais intrisa di ragù di fegatini, da spizzicare a mano libera. Infine, la coscetta farcita con topinambur e noci approfondisce il lavoro sulle consistenze, lasciando in bocca la piacevole sensazione di un fritto (che fritto non è).
Ultimo atto, Ricotta e barbabietola, un curioso slash vegetale in cui la namelaka al cioccolato sposa la grassezza del latticino e l'intensità delle rape rosse in agrodolce. Golosi avvisati: vale la pena tenersi uno spazio per il dessert.
Foto della sala e ritratti: Crediti Giulia Venanzi
Foto dei piatti: Crediti Andrea Di Lorenzo
Indirizzo
Campocori Restaurant
Via di S. Maria de' Calderari, 47, 00186 Roma RM
Tel: 06 8993 5351