Piatti di grande purismo dove il vegetale è protagonista, con uno spazio ridotto per il pesce e pochissima carne, quasi confinata a condimento: questa la proposta di Mimesi, ristorante di appena una ventina di coperti nel centro di Firenze. La rivelazione dell’anno in città!
Mimesi Firenze
Il ristorante
Fra i tavoli su cui puntare le proprie fiches, in questo inizio d’anno, spunta di prepotenza il Mimesi di Giovanni Cerroni, ristorante di appena una ventina di coperti nel centro di Firenze. Già l’ambiente intriga: siamo in una villa ottocentesca, Dimora Palanca, residenza dell’antica stirpe nobiliare, recentemente convertita in cinque stelle dalla famiglia Ugliano. Una perla di soffitti a grottesche e affreschi allegorici, scendendo la cui scala si arriva nell’intimo ristorante con cucina a semivista.
Dimora Palanca in Florence
Dimora Palanca in FlorenceÈ qui che Cerroni, ragazzotto romano di trent’anni, stupisce per una proposta già definita, capace di tesaurizzare il percorso compiuto attraverso il plusvalore del piatto. “La mia famiglia c’entra poco: vengo da una stirpe di mangioni, nonne, mamma, zie bravissime. Ma è stato dopo il diploma al liceo psicopedagogico, che un po’ per caso sono entrato in questo mondo. Alla ricerca della mia strada, sono partito per Londra. Volevo imparare l’inglese, ma sono finito lavapiatti a Tower Bridge. Quando sono rientrato, mi sono iscritto alla scuola del Cordon Bleu ed è stata una folgorazione. Mi sono catapultato cuore e anima in questo mestiere, anche per senso di rivalsa, visto che avevo scelto di non proseguire gli studi”.
Dopo uno stage in un ristorante da battaglia, Cerroni riesce a entrare per il rotto della cuffia al Convivio Troiani, che lo impressiona per estetica e concetti. “A quei tempi per me iperuranio: non avevo mai visto un torchon di foie gras”. Segue Bracali, dove si ferma tre anni girando tutte le partite. “Ed è stata la mia vera scuola, con uno chef bistellato sempre al fianco. Quella cucina classica, con impiattamenti moderni, mi ha forgiato”. E ancora Gaetano Trovato e Oliver Glowig. Ma Cerroni ha fame di conoscere altre cucine ed è così che approda nella più avanzata del mondo, al Mugaritz, nel 2017. “Sono entrato stagista e sono uscito capopartita di carni e pesci. Ed è stata un’esperienza durissima, che mi ha formato innanzitutto come uomo. Il luogo dove in assoluto ho gioito e mi sono sacrificato. Più dei piatti, ho appreso il pensiero e l’approccio, che applico in modo italiano. Quello che mi propongo, è di divulgare e democratizzare questo tipo di cucina, conferendole una maggiore concretezza”.
Al Mugaritz Cerroni conosce Terry Giacomello, passato in stage due settimane. Arriva così da Inkiostro, dove contribuisce al menu Vibrazioni 2.0, quello della celebre mela. “Avevamo una bella complementarietà: lui cercava l’effetto wow, io ero più concentrato sul boccone e sulla sollecitazione dei cinque sensi. Un fiume in piena”. E ancora l’ottimo Andrea Mattei a Borgo Santo Pietro e Italo Bassi al Confusion di Porto Cervo. I tempi sono maturi per metterci la faccia. Prima al progetto Paragon a Ostuni, poi, sempre con la direttrice Laura Stopani, a Firenze, dove scatteranno altre novità.
Oggi la cucina di Cerroni rappresenta fedelmente il suo percorso, nel rimpallo di riferimenti classici e tecniche avanguardiste, spesso sottaciute e sempre impiegate con cognizione di causa, al riparo da ogni esibizionismo. Sono piatti di grande purismo, talvolta monoingrediente, dove il vegetale è protagonista, con uno spazio ridotto per il pesce e pochissima carne, quasi confinata a condimento. La lezione del Mugaritz è preclara nell’attenzione portata sulle testure, esaltate dal chiaroscuro di concentrazioni estreme e rigorose, spesso in chiave no waste. Ricerca gustativa e tecniche, senza coazione a stupire, producono una focalizzazione implacabile sui dettagli sensoriali. “Personalmente non parto mai da zero, ma da un riferimento classico o familiare, cui applico una tecnica e un pensiero d’avanguardia. L’innovazione pura è ormai possibile solo in una grande brigata, ma sul gusto c’è ancora tanto da fare”.
I piatti
I 3 menu da 5, 7, 9 portate si allargano come cerchi sull’acqua. Costano fra 95 e 155 euro e vengono preparati con ingredienti preferibilmente bio e toscani (dall’estero solo il foie gras, quando c’è). A lavorarci con Cerroni sono i due secondi Leonardo Tramontana, Luigi Galiano e il pasticciere Davide Pascale; mentre in sala officia Dino Scarpato e in cantina riposano quasi 400 etichette.
Lo schema italiano del menu sopravvive in chiave friendly, più che altro simbolicamente, senza vincoli alla creatività. Sono già centrati in abbrivio gli appetizer: il finto macaron di zucca con pralinato dei suoi semi da base meringa, più croccante e scioglievole, finalmente non troppo dolce; l’uovo di quaglia impanato e fritto, omaggio al Giappone e alla Francia nella salsa remoulade con polvere di capperi; la squisita tartelletta tipo tarte au citron con lemon curd salata di patata e meringa, sempre di patata; la spugna di rapa rossa con gel di olio alla brace e verdure croccanti in giardiniera, che inverte le testure di una bruschetta; il croissant di lamina di sedano rapa e chantilly al rafano.
Ottimo poi, con l’olio toscano e il burro montato alla bottarga nella cera, il pane, studiato lavorando in un forno romano d’estate: la pagnotta al lievito madre con farina tipo 2 di grano verna, finita di cuocere all’arrivo del cliente, i grissini torinesi stirati al burro, il pane sfogliato alle erbe, la golosa focaccia di grano saraceno con lardo di cinta senese.
Lo stile di Cerroni è già tutto nel primo antipasto: un cavolfiore tuffato in una morbida salsa spumosa, che in bocca sprigiona la sensazione familiare di una besciamella vellutata e tostata per la gratinatura. Il cavallo di Troia per introdurre l’avanguardia entro le mura, visto che il focus è sulla testura del vegetale (passato nella calce, cotto sottovuoto, ripassato nel burro nocciola per la perfetta omogeneità fra dentro e fuori, quasi da pickle, ma senza acidità), equilibrata dalla crema di cavolfiore e dalla “spuma” di latte di mandorle all’acqua di mare e latticello per la leggera acidità, più un giro di demi-glace dell’ortaggio stesso (praticamente ogni piatto ha la sua).
Ancora vegetale, ancora purismo, ancora testura nel cardoncello, che in bocca ha il morso animale di una cartilagine. Deriva dal passaggio sottovuoto, seguito dalla maturazione in busta con scarti, riso koji, soia dei funghi stessi e dalla spadellata al burro. Sul piatto con demi-glace di funghi, salsa e olio al levistico, purea di radici di prezzemolo per ricreare un ecosistema di radici, spore e foglie. Fondi ricavati come al Mugaritz, in pentola a pressione e misurando il grado brix.
La tagliatella di seppia è un gioco non detto sul ramen, che scatena un’onda salmastra di mare selvaggio, con un naso quasi da mercato asiatico. La salsa viene ricavata dal brodo iperproteico di pelle di baccalà, il cui collagene funge da emulsionante per succo di bergamotto e fegato di seppia, prima del passaggio al sifone per un’evanescenza che stempera l’aggressività. Mentre per l’uovo c’è lo sferico di riccio di mare, quasi fegatoso; il consommé è una zuppa di miso con infusione di scarti di seppia essiccati e garum del mollusco.
Deliziosi poi i cappelletti di topinambur, piatto che in bocca sempre sbocciare dalla memoria italiana e domestica di un carciofo macerato al limone. Dove il cosiddetto carciofo di Gerusalemme regala una farcia dolce e cremosa, il carciofo tout court è fritto e croccante per la nota amaricante, qualche goccia di purea di topinambur nell’Ocoo porta l’umami, mentre l’acidità del limone nero, sempre passato all’Ocoo, risciacqua sotto forma di consommé.
Più “comfort” il risotto da Carnaroli Riserva San Massimo mantecato con burro acido all’ostrica affumicata, più purea di shiso verde e acqua di ostriche al Pacojet, polvere di limone nero, ostriche alla brace scaloppate.
Il classico torna, per quanto ibridato ed evoluto, nell’ombrina frollata 14 giorni, per una testura e una concentrazione che possano reggere l’urto della salsa matelote, vedette del piatto. Viene ricavata assemblando al bilancino riduzione di fumetto, demi-glace di funghi, riduzione di vino rosso, sempre al giusto grado brix, per un’esplosione di umami nel sarcofago d’antan. Sul piatto con porro farcito alla demi-glace di funghi, demi-glace di porro, lisca stilizzata.
È il momento di un “piatto di mezzo”, come Escoffier comanda. Quindi il cinque volte sedano rapa che voleva essere ananas: cotto in crosta di sale e finito sotto il passe per 12 ore, concentrando gli zuccheri per un morso “plasticoso”, poi tagliato, essiccato e spadellato; in forma di melassa da succo ridotto; in demi-glace; crumble; gelato di polpa arrosto. Un gioco nato dal tentativo di estrarre sapori diversi, come se fossero ingredienti a sé, in una variazione dell’assoluto.
La carne è un simulacro. Per la precisione quello di rillettes di agnello, che farciscono una terrina di verza con mousse di patata tipo maionese, terrina di patata e polvere di verza fermentata, fondo di agnello, olio al dragoncello e pan brioche ottenuto con metodo giapponese, precuocendo acqua e farina come una pâte à choux, per una mollica filante che profuma di grasso arrostito di agnello, impiegato al posto del burro.
Il predessert nasce da una sensazione di pasta sfoglia sbagliata. Dentro l’involucro croccante, c’è la sua spuma, più polvere di cappero, gelato al finocchietto, riduzione di finocchio tipo mou per rinfrescare.
La calce torna nella pera, croccante ma cotta sottovuoto con la sua stessa mou, lasciata marinare in osmosi e spolverizzata di bucce bruciate e zucchero fondente; più un gelato di yogurt e latticello.
Chiude ottimamente il foie gras, utilizzato come naturale base grassa di pasticceria, quasi fosse una mousse, con gelatina e gelato di lamponi per l’acidità, polvere granulare al cioccolato fondente e maltodestrina per l’amaro, in un bel match di gusti primari. Per friandises minisacher, craquelin con ganache di tartufo e caffè, cioccolatino rhum e banana, tarte tatin alla mela verde, millefoglie di crema diplomatica e frutti rossi.
Indirizzo
Mimesi Urban Restaurant
Via della Scala, 68-74, 50123 Firenze FI
Tel: 055 031 7816
Sito Web