Una lunga tradizione tra vitigni autoctoni e viticoltura eroica: come la famiglia valdostana Grosjean ha trasformato delle terre abbandonate in un paradiso di biodiversità.
La storia e l'azienda
Quella dei Grosjean, famiglia che ha il merito di aver di fatto rilanciato la viticoltura in Val D’Aosta, è una storia lunga e avvincente, tra radici profonde e vicissitudini lungo i secoli. Le prime testimonianze certificate che li riguardano risalgono al XVII secolo: furono infatti una tra le famiglie, originarie della Savoia e della Borgogna, invitate dal Duca di Savoia a ripopolare la valle decimata dalla peste del 1630. Grazie al recupero di terreni abbandonati, i Grosjean nel tempo si allargarono, iniziando anche a coltivare la vite, sia per l’autoconsumo sia per il commercio locale, fino a far crescere in Val D’Aosta la tradizione vitivinicola borgognona.
Questo fino alla fine del 1800, quando iniziò un lungo periodo di declino, fino alla ripresa avvenuta dopo la seconda guerra mondiale a opera di nonno Dauphin. Quel che accadde ce lo racconta Hervé, ultima generazione, laureato ad Alba ed enologo della cantina di famiglia dal 2015: “Abbiamo una storia molto importante che purtroppo abbiamo perso quasi del tutto a causa della ferrovia, che è stato uno dei problemi più importanti di abbandono della viticoltura. Si parla dell’inizio del XX secolo, quando è sorta qui un’industria di produzione dell’acciaio. Il trenino arrivava quassù col fiasco impagliato e questo ha fatto sì che la maggior parte dei valdostani non producesse più il proprio vino, perché quello era molto più caloroso, con un grado alcolico leggermente più alto. Quindi conveniva acquistarlo, piuttosto che produrselo. Ecco che i nostri 3500 ettari vitati, cresciuti dal 1600 al 1800, sono passati a poche decine.”
Dauphin è una figura importante che, continua Hervé, “si mette in gioco in anni in cui si brancolava letteralmente nel buio. Infatti la nostra prima etichetta che conserviamo gelosamente nella nostra cantina è di Ciliegiolo, una varietà che non ha nulla a che vedere col nostro territorio. Questo perché, quando si andava a comprare le barbatelle, c’era quella, insieme al Barbera o al dolcetto. Aveva una resa importante e l’obiettivo allora più importante era produrre tanta uva. Quindi noi partiamo con una storia difficile, oltre che di grande povertà e idee confuse” Però il nonno quel Ciliegiolo nel 1968 lo presenta alla “II Exposition des Vins du Val d’Aoste”: il vino ha successo e inizia la svolta che fa sì che la famiglia si concentri sulla viticoltura con i suoi 5 figli.
“Per nostra fortuna ci sono stati 4 o 5 ristoratori che hanno creduto in noi e infatti il nonno, nel giro di 2 3 anni, è riuscito a crearsi i clienti, gli stessi che ci fornivano le bottiglie vuote usate. C’era questo scambio, (una sorta di sostenibilità antelitteram, n.d.r.), non c’era una bottiglia uguale in casa, quello era sicuro (ride, n.d.r), però da lì è nata questa scintilla che ha fatto cambiare le idee al nonno e adesso possiamo vantarci di essere l’azienda più storica della Valle d’Aosta, perché in quegli anni sono partiti in tanti poi quasi tutti hanno smesso. Negli anni 70 si è iniziato a piantare Pinot noir, Gamay e Petit Arvine, i 3 vitigni con cui abbiamo preso un’identità più concreta.”
L’azienda cresce, espandendosi all’inizio degli anni 2000 in modo significativo anche su mercati come Usa e Giappone, raggiungendo circa il 10% della produzione dell’intera regione. Nel 2011 Grosjean è la prima cantina in conversione biologica della Val D’Aosta e qualche anno dopo, nel 2018, la gestione passa alla terza generazione, composta, oltre che da Hervé, da Didier, Simone e Marco, con una produzione annua che si attesta oggi sulle 140.000 bottiglie.
Nel 2022 sono stati acquisiti quattro nuovi appezzamenti, aumentando la la superficie vitata di 180.000 metri quadrati , pari al 12% della precedente. Quella di Grosjean, come in genere la viticoltura valdostana, è una pratica eroica a tutti gli effetti; le loro vigne crescono su terreni necessariamente terrazzati e difficili da raggiungere, dai 500 fino ai 900 metri d’altitudine, con pendenze che arrivano fino all’80%. Le lavorazioni richiedono fino a 700-800 ore per ettaro, contro le 150 medie di un vigneto nel resto d’Italia.
A tutto questo si aggiunge la sfida del cambiamento climatico in atto, con lo scioglimento dei ghiacciai, il conseguente ritiro dei bacini e una siccità che cresce. Grosjean reagisce con una rete di irrigazione rafforzata, bacini di raccolta dell’acqua, la bonifica di sorgenti e la massima riduzione degli sprechi grazie all’utilizzo della tecnologia, anche se va detto che c’è anche un effetto da non sottovalutare, ovvero una migliore maturazione delle uve dovuta all’innalzamento delle temperature medie. Dato che il suolo, ricco di scheletro e sabbia, tende a compattarsi, è diventato fondamentale arieggiare la terra per consentire una riduzione dell’evapo-traspirazione e una maggior salubrità delle piante.
In cantina le vinificazioni prevedono poche lavorazioni: si favorisce la fermentazione naturale innescata dai lieviti presenti nell’uva, solo se necessario selezionati. Anche l’uso della solforosa è ridotto al minimo riducendo al minimo l’uso di solforosa. Delle 20 varietà autoctone valdostane, la famiglia Grosjean ne coltiva 11: Petite Arvine, Premetta, Gamay, Cornalin, Nebbiolo – Picotendro, Neyret, Fumin, Muscat, Chardonnay, Pinot Noir, Petit Rouge.
I vini
Abbiamo trovato decisamente interessante, immaginandone anche la potenziale ottima evoluzione, il nuovo Heraco, rosso che nasce da un assemblaggio di 4 vini: il Pinot Noir, il Fumin, il Torrette e una piccola quota di Clairetz, quattro varietà completamente diverse che rappresentano i 4 soci della famiglia. Ci ha stupiti, per profondità, sapidità e carattere, il Petite Arvine del vigneto Rovettaz a 550 metri di altezza, in forte pendenza con esposizione a Sud.
La maturazione avviene a grappolo intero, con flottazione del mosto e fermentazione con lieviti selezionati aggiunti. Affina 8 mesi ‘sur lie’ per il 70% in acciaio e per il restante 30% in barrique di rovere francese, con due batonnage a settimana nei mesi di Novembre e Dicembre, prima di passare 3 mesi in bottiglia. Dal profilo aromatico intenso, tra fiori bianchi e agrumi, ha un’acidità marcata che gli garantirà certamente una vita almeno oltre i cinque anni. Come sottolinea Hervé: “l’importante è capire anche qui in Val d’Aosta finalmente si inizia a fare qualità anche nel mondo enologico e si comincia a sentire sempre più il nostro savoir faire.”