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Come si fa il Parmigiano Reggiano? Visita al Caseificio Gennari, il luogo che ha stregato Oldani, Cracco e i Cerea

di:
Martino Lapini
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magazzini scalera famiglia 2

Tour nell’azienda che ha stregato Oldani, Cracco e i Cerea con il suo Parmigiano Reggiano: un concentrato di umami e sapienza casearia.

La Storia

Il parmigiano si fa tutte le mattine. Natale, Pasqua, #cheeseday. Paolo Gennari, titolare del Caseificio Gennari, lo ha fatto anche la mattina del giorno del suo matrimonio, prima di andare dal barbiere e poi alla celebrazione. Il latte fresco arriva e va lavorato subito. Ne arrivano litri e litri. Il latte non aspetta, non può aspettare. È l’oro bianco della food valley, altamente deperibile.


Tutto si gioca in una manciata di ore, ogni giorno. Da quando sorge il sole, fino alle 11.30. Almeno è a quell’ora che abbiamo preso un caffè alla macchinetta con Paolo e suo fratello Tino. Noi felici di aver assistito alla magia del Parmigiano, loro a fare una pausa prima di cominciare a sbrigare altre consegne.


100 forme al giorno, posson bastare? Sono tante, sono poche? In media un classico caseificio del consorzio ne produce 30 al giorno. Allora sono tantissime, allora è un’industria casearia e non un caseificio? Possiamo far sì con la testa e fermarci qui. Oppure possiamo lasciare stagionare i pregiudizi e vedere che si trasformano in nuove idee. Paolo è tutto di bianco vestito, come suo nipote Andrea, ormai molto più che una spalla nella produzione del Parmigiano Gennari.


La levataccia da Milano inizia a brillare non appena mettiamo piede nel corridoio del caseificio e intravediamo uno dei magazzini. Non sono stanze di stoccaggio, ma templi in cui adorare il gran sacerdote dei formaggi, in cui le forme più giovani donano umidità alle più anziane e quelle più anziane infondono nerbo e aroma alle più giovani.


Nella sala della produzione, lo spettacolo: decine di vasche accolgono gli ettolitri di latte che servono ad alimentare il dio. 500 litri per due forme gemelle, sapevatelo. C’è la parte meccanizzante del processo che riguarda il taglio delle forme, il controllo della temperatura, l’aiuto al sollevamento e la movimentazione delle forme. Il bello viene fatto ancora tutto a mano, qui sta la differenza. I passaggi fondamentali rimangono figli della sensibilità e della tecnica di Paolo e Andrea. La consistenza della cagliata, che a mano a mano che si scalda scrocchia, e la spinatura (la rottura fatta a mano con lo “spino”, una sorta di grande frusta chiusa che richiede tecnica e forza).


Quando Paolo ci ha passato lo spino, ci siamo frizzati per un istante. Provare in prima persona la consistenza della cagliata e immaginare lo sforzo necessario nel farlo ripetutamente alcune ore al giorno, ci ha fatto comprendere quanta dedizione occorre per portare avanti questa grande tradizione.





Nella sala è quasi onnipresente il suono di una “retro”. Avete presente i grossi camion che avvisano quando si spostano all’indietro? Qui il suono indica che le forme sono in movimento, proprio all’altezza della tua testa. Meglio evitare un incontro ravvicinato con un peso massimo da 50 kg. Latte, caglio, siero, salamoia e riposo. Questi gli ingredienti del formaggio più celebre al mondo. Uguali per tutti?


Al Caseificio Cesari usano ancora la ricetta personale del padre di Paolo per il caglio - che è come una sabbia sottile ottenuta dall’essicazione dei prestomaci dei vitelli lattanti - e una salamoia che ha settant’anni di età, certificata e controllata ogni 3-4 mesi. Sono altri due elementi che fanno la differenza, nonostante la produzione più alta rispetto alla media. Se ci fate caso riguardano le fasi fondamentali della produzione, quelle in cui un parmigiano può veramente risultare diverso dagli altri, nonostante le regole ferree del Consorzio. Non è un caso che chef come i Cerea, Cracco e Oldani lo abbiano scelto per le loro preparazioni o ricette.





Nel tempio della stagionatura viene naturale stare in silenzio, e osservare. Navate di parmigiano riposano per mesi. Quelle già marchiate a fuoco con il brand “Parmigiano Reggiano”, convivono con quelle che aspettano ancora il loro destino. Le statistiche dicono che in media l’1% non passa il test del martelletto.


Le forme differiscono anche per la loro anima, vale a dire per il latte con cui sono state create. Paolo è da alcuni anni che all’approccio verticale - vale a dire secondo i mesi di stagionatura che qui arrivano anche oltre i 100 - ne ha aggiunto uno orizzontale, come fossero dei monovarietali dal latte di provenienza. Le vasche nella sala di produzione, infatti, sono segnate in 4 modi diversi: frisona, bruna, vacche rosse o bio, ad indicare il latte delle “madri” e nell’ultimo caso che il foraggio è tutto da campi a certificazione biologica.


Per un’azienda che ha un capitale immobilizzato del valore di circa 25 milioni di euro, questo dinamismo imprenditoriale non è scontato. Merito di Paolo che continua a gettare linfa creativa e di passione in un lavoro millenario, alimentando quel naturale umami che arricchisce tutta Italia e tantissime ricette di chef in tutto il mondo.

Foto: Crediti Caseificio Gennari

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