Michele Casadei Massari e la tavola degli UNCA Awards Gala: lo chef italiano a New York nel palazzo delle Nazioni Unite con Parmigiano Reggiano e pani da tutto il mondo.
L'evento
Il pane passa di mano in mano prima ancora che il protocollo entri in scena. Un gesto antico, quasi istintivo, che a New York, nei saloni più sorvegliati del mondo, assume il peso di una dichiarazione silenziosa. Michele Casadei Massari, chef italiano trapiantato negli Stati Uniti, è stato scelto dalla United Nations Correspondents Association per disegnare e dirigere l’esperienza culinaria della 29ª UNCA Awards Gala, ospitata negli spazi più simbolici del quartier generale dell’ONU, tra la Delegates Lounge e lo storico Flag Corridor.

Luoghi solitamente riservati ai capi di Stato durante l’High Level Week si sono aperti il 12 dicembre per una sera a un rito diverso, più fragile e potente allo stesso tempo: quello della condivisione. Ambasciatori, alti funzionari, giornalisti internazionali, figure della cultura, dell’impegno civile e dello spettacolo attorno a una tavola che parla molte lingue senza pronunciarne nessuna. Tra i protagonisti della serata, Javier Bardem come Global Citizen of the Year e Massimo Bottura, UNEP Ambassador, premiato come Global Advocate of the Year, in un contesto che celebra non solo un anniversario, ma una visione rinnovata del ruolo delle Nazioni Unite nel XXI secolo.

Casadei Massari arriva a questo appuntamento con una domanda semplice e radicale: “come può una tavola avvicinare le persone? Non attraverso l’esibizione tecnica o l’effetto speciale, ma attraverso un’ospitalità che rompe le barriere, come il gesto simbolico e potente del passarsi il pane, a condividere intingoli, a mangiare anche con le mani se serve”, racconta lo chef. «Non voglio semplicemente servire cibo. Voglio essere nutrito. Una tavola può parlare tutte le lingue insieme, senza che nessuno se ne accorga». Il suo menu nasce così, come una grammatica di pace fatta di gesti, temperature, consistenze e memoria collettiva.


Il menu
L’apertura è un manifesto: un Bread Basket of the World che raccoglie pani e declinazioni di pane provenienti da culture diverse, uguali nella funzione, differenti nel nome e nella forma. Pita, puri, injera, panella, farinata, “crystal bread” (inteso come il celebre pane carasau) e pani quotidiani, disposti come un atlante commestibile. Spezzare, intingere, offrire diventa il primo atto di una cena pensata come ritualità condivisa. «Breaking bread together», ripete lo chef mentre racconta questo momento, consapevole che quel gesto elementare racchiude una verità universale: “nutrire e nutrirsi è uno dei bisogni più primari che abbiamo: annulla le differenze, attraversa religioni, geografie, ideologie.”

Il menu prosegue seguendo la logica dell’ospitalità mediterranea e globale, con piatti caldi e freddi concepiti per essere scambiati, che invitano alla conversazione più che alla contemplazione individuale. “Ho proposto la mia cucina come una danza, dentro l’architettura del Palazzo di Vetro, tra cemento, vetro e opere d’arte, mentre una cucina mobile lavora con una precisione quasi scientifica: 160 gradi Fahrenheit, una temperatura studiata per essere sicura, accogliente, coerente, capace di restituire lo stesso sapore a tutti, senza gerarchie.”

Il racconto prosegue attraverso piatti che sono dichiarazioni culturali più che esercizi di stile. Un timballo di pasta con Parmigiano Reggiano e funghi, chiuso da una tuile di Parmigiano Reggiano, diventa comfort food strategico, familiare e al tempo stesso universale. Una cotoletta che rilegge il principio gattopardiano del “tutto cambia perché nulla cambi”, declinata in versioni diverse, inclusa quella con guancia di manzo per valorizzare ogni parte dell’animale, accanto a interpretazioni di pesce e opzioni vegetariane pensate con la stessa dignità narrativa. Piatti che si possono mangiare con le mani, perché la formalità, quella sera, lascia spazio alla verità del gesto. Il mare ha incontrato la terra in una capasanta lavorata tra griglia e forno, accompagnata da Parmigiano Reggiano, da un’emulsione di Timorasso e da microsfere di Aceto Balsamico Giusti; per i vegetariani, porri e intingoli che raccontano la stessa profondità.


Il dessert è arrivato come un ponte tra mondi: mochi al pistacchio, pistacchi provenienti da diverse parti del mondo, note acidule tra mare e monti, un velo di zabaione che richiama l’Italia senza nostalgia. Una scelta consapevole, che rompe le aspettative: niente tiramisù, nessuna scorciatoia iconica. «Per una volta, no mochi no matcha», sorride lo chef, lasciando che il dolce diventi simbolo di interconnessione, di longevità, di futuro. Il finale si sposta nel foyer d’ingresso dell’ONU per un after-party accompagnato da un DJ set, tra opere e memoriali che parlano di storia e pluralità, con un ultimo gesto di familiarità: il gelato, servito come un sorriso condiviso.

Durante la serata, lo chef Casadei Massari ha riassunto così la serata, pronunciata con il suo accento rigorosamente emiliano: “Life is short, life is dull, life is full of pain. And this is a chance for something special”. Una massima tratta dal film Vicky Cristina Barcelona con protagonista lo stesso ospite della serata, Javier Bardem, che diventa quasi un filo conduttore, tra ironia e verità. Casadei Massari insiste su un punto che attraversa tutta la sua visione: “In un mondo che fa sempre più paura, che tende a togliere l’elemento umano, una cena così ricorda l’importanza primaria del nutrire e del nutrirsi, del dare da mangiare a chi si ama, della possibilità di comunicare con un semplice “mi passi il pane” o “mi passi il sale”.”

È una ristorazione inclusiva, che non rinuncia alla teatralità ma la rende reale, concreta, quotidiana. «Sono certo che molti potrebbero cucinare anche meglio di me i piatti che ho presentato», dice con disarmante onestà.