Attualità enogastronomica

Chef fuori dalle guide, parla chi non vede premi: “Burnout e rischio chiusura”

di:
Nadia Afragola
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Nel tempo dei voti e delle classifiche, c’è una cucina che non finisce sui palchi ma sulle soglie delle crisi: ristoranti che pensano di chiudere, cuochi che sfiorano il baratro, vite appese a un punteggio. Un viaggio dentro il lato oscuro delle guide per capire come si sopravvive – umanamente e professionalmente – quando il tuo nome non compare da nessuna parte.

La prima cosa che ho sentito è stato il respiro. Dall’altra parte del telefono non c’era uno chef, c’era un uomo. Un uomo stanco, svuotato, con la voce rotta che mi ha detto: «Nadia, io chiudo. E ho paura di quello che potrei fare da qui a domani mattina». Non è la prima volta che mi chiamano quando escono le guide. Succede ogni anno, più o meno nello stesso periodo: la stagione dei voti. Escono le guide di settore, le classifiche italiane e internazionali. È come un Capodanno parallelo della ristorazione: fuochi d’artificio per chi “entra”, silenzio pesante per chi resta fuori. Di chi festeggia sappiamo tutto: foto col macaron in mano, piatti in primo piano, sorrisi tirati davanti ai backdrop delle cerimonie. Di chi non c’è, invece, parliamo pochissimo. Eppure è lì, in quel fuori campo, che oggi si gioca una delle partite più delicate della cucina italiana.

La notte delle guide e il giorno dopo

Le guide hanno costruito – e in parte ancora costruiscono – il racconto del valore gastronomico. Una stella, un cappello, una forchetta, un punteggio alto significano prenotazioni, attenzione mediatica, legittimazione. Sono strumenti utili, spesso seri, frutto di lavoro, viaggi, criteri. Ma non sono neutri: sono lenti che selezionano, includono, escludono. Per chi entra, è consacrazione. Per chi perde un simbolo, o semplicemente non viene nominato, può essere vissuto come una sentenza: “Non esisto, non valgo abbastanza”. Il punto è che oggi queste decisioni non arrivano in un vuoto pneumatico. Arrivano dopo anni di pandemia, aumento dei costi energetici, difficoltà nel trovare personale, affitti insostenibili, margini sempre più sottili. Arrivano su imprenditori che spesso sono anche cuochi, padri, madri, direttori di sala, psicologi di brigata, equilibristi di bilanci. Quando un ristorante resta fuori da tutte le narrazioni – nessuna guida, nessun blogger influente, nessun post virale – non è “solo” una ferita di orgoglio: è una crepa che si apre nella sostenibilità economica, nella motivazione, nell’identità.

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“Ho lavorato per niente?”

La frase che sento più spesso non è “perché non mi hanno messo?”, ma: “Ho lavorato per niente?”. Dietro c’è una domanda ancora più crudele: se non piaccio alle guide, se non rientro nei ranking, se non vengo invitato agli eventi, a chi interessa davvero quello che faccio? E qui si innesta la spirale pericolosa: ci si sente sostituibili, invisibili, falliti. In un mestiere che ti chiede tutto – tempo, salute, vita privata – la sensazione di essere “fuori dal giro” può diventare devastante. Parlarne non significa demonizzare le guide. Significa riconoscere che il loro peso, sommato a quello dei social, delle classifiche, delle aspettative del pubblico (“per quel prezzo voglio almeno un riconoscimento"), può essere schiacciante. E che nessun sistema di valutazione, per quanto articolato, può farsi carico della complessità di una vita, di un’impresa, di un territorio.

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Chi ha ragione? Chi trionfa? Chi lavora?

Domanda scomoda: chi ha ragione? Le guide che selezionano pochi, pochissimi, spingendo verso l’eccellenza estrema? I ristoranti pieni tutte le sere senza nemmeno una riga sulle pagine patinate? I clienti che fanno la coda per il fine dining, o quelli che cercano semplicemente un luogo dove sentirsi bene? Forse non esiste una sola ragione. Esistono piani diversi che spesso non si parlano. Chi trionfa nelle classifiche non sempre è quello che lavora di più, ma quello che riesce a intercettare una certa sensibilità del momento: estetica, narrativa, geografica. È il ristorante giusto al momento giusto dentro il frame di chi giudica. Chi lavora davvero – nel senso più concreto del termine – spesso è invisibile: trattorie di provincia che tengono in vita una comunità, bistrot di quartiere che fanno da presidio sociale, locali che non hanno ufficio stampa ma pagano stipendi puntuali. Chi è rispettoso non è solo chi cucina bene, ma chi rispetta il tempo del cliente, il corpo dei collaboratori, il produttore che sta a monte, sé stesso. Questa dimensione del rispetto raramente entra nei punteggi, ma pesa come un macigno sulla qualità reale del sistema. Il problema nasce quando confondiamo il trionfo con il valore, la visibilità con il senso, il voto con l’identità.

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Il lavoro emotivo dei cuochi (e il nostro dovere di adulti nel sistema)

C’è una retorica pericolosa che abbiamo alimentato un po’ tutti: quella del “cuoco genio”, della “rockstar dei fornelli”, dell’eroe resiliente che regge turni infiniti senza mai vacillare. È una narrazione seducente, utile a titoli e copertine, ma tossica quando rientri da un servizio con le ossa rotte e ti ritrovi da solo a fare i conti con i numeri. In quella telefonata di cui parlavo all’inizio, la guida era solo l’ultimo tassello. Prima c’erano stati: mesi di sala semivuota durante la settimana; fornitori da pagare con ritardo; collaboratori che se ne vanno perché “non vedono futuro”; la sensazione di non poter mai rallentare perché, se rallenti perdi treno, trend, algoritmo. Quando qualcuno arriva a dire “ho paura di fare gesti estremi”, non è un capriccio. È il sintomo di un sistema che non contempla il fallimento, il cambio di rotta, la pausa. Come se chiudere un ristorante fosse sempre e solo una sconfitta, e mai una scelta legittima di tutela personale, familiare, professionale. Per questo, accanto alle guide, abbiamo bisogno di un’altra grammatica. Una che includa parole come limite, cura, fragilità, ridimensionamento, senza farle suonare come insulti.

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Se ti riconosci in queste righe

Se, mentre leggi, ti ritrovi in queste righe – sei uno chef, un sommelier, un pasticcere, un ristoratore che sente di essere arrivato al limite – non sei solo e non sei sbagliato. Parlare con qualcuno può fare la differenza, davvero. In Italia esistono servizi di ascolto come Telefono Amico Italia, che risponde tutti i giorni al numero 02 2327 2327 e offre anche contatto via WhatsApp, pensati proprio per chi sta attraversando una crisi emotiva o ha pensieri molto bui. Non sostituiscono uno psicologo o un medico, ma sono un primo appiglio. E sì, vale anche per chi indossa una giacca da chef: chiedere aiuto non intacca il talento, non cancella anni di sacrifici, non “toglie credibilità”. È, al contrario, un atto radicale di responsabilità verso di sé e verso chi ci sta intorno.

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E noi? Media, guide, clienti

Di fronte a tutto questo, la domanda che dovremmo farci – noi che raccontiamo, giudichiamo, prenotiamo, fotografiamo – è: come possiamo essere più rispettosi? Le guide, forse, possono continuare a fare il loro lavoro di selezione rigorosa, ma aprendo spazi di racconto anche per ciò che non è premiato: rubriche su chi chiude in modo dignitoso, su chi cambia format, su chi sceglie modelli più sostenibili. Meno mitologia, più contesto. I media gastronomici possono smettere di raccontare solo l’ascesa e iniziare a raccontare anche le parabole irregolari, le cadute, le rinascite. Far capire che un ristorante può perdere quotazione e non perdere anima, senso, qualità. I clienti possono uscire dall’idea che esistano solo “posti da guida” e “posti che non contano”. Ogni prenotazione in un ristorante fuori dai radar è un voto di fiducia, un atto politico in favore della diversità gastronomica. Gli addetti ai lavori – consulenti, comunicatori, giornalisti, organizzatori di eventi – possono vigilare sul proprio linguaggio: evitare di ridurre tutto a buzz, hype, numeri, like. Ricordarsi che dietro ogni nome c’è un equilibrio fragile di persone, non un format da spremere.

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Come si sopravvive alla stagione dei voti?

Forse la risposta più onesta è: non da soli. Si sopravvive mettendo in discussione il dogma che tutto passi da una guida. Si sopravvive scegliendo con chi parlare nei momenti in cui l’ego urla “sei finito” ma la realtà, spesso, è molto più sfumata. Si sopravvive costruendo reti orizzontali tra colleghi, condividendo numeri veri, errori, paure, senza vergogna. Ma si sopravvive anche cambiando la domanda di fondo. Non più: “Quanti premi ho?”  bensì: “Che vita faccio avere a me, al mio team, al mio ristorante, oggi, domani, tra cinque anni?” Le guide resteranno – e va bene così. Continueranno a far discutere, a far arrabbiare, a far esultare. Ma forse è tempo di ridare alla parola esperienza un significato che vada oltre il punteggio: esperienza come relazione, come continuità, come cura reciproca tra chi cucina, chi serve, chi racconta, chi si siede a tavola. A volte, essere “fuori guida” non significa essere fuori gioco. Significa solo essere fuori da un certo tipo di racconto. Il resto – la dignità del lavoro quotidiano, la bellezza di una sala che mormora, la mano che stringe un piatto fatto bene – non ha mai smesso di esistere.

E se c’è una responsabilità collettiva che possiamo prenderci, è proprio questa: ricordare, ogni volta che celebriamo chi trionfa, che dall’altra parte del telefono potrebbe esserci qualcuno che quella stessa notte si chiede se valga ancora la pena continuare. A lui, a loro, dovremmo saper dire: “Sì. Ma non così, non da soli. E non è una guida a decidere quanto vali”.

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