Tradizione e ricercatezza

Vino del Poggio: l’agriturismo che fa belli i piatti tipici in un paesino piacentino di 2000 vite

di:
Manuel Marcotti
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Qui il cibo non è progettato, è vissuto. La brigata si muove come una famiglia che ha imparato il rispetto attraverso le mani, non le regole. E nutrire è un verbo morale prima ancora che gastronomico.

Il posto e la filosofia

C’è un punto, sulle colline che salgono pigre dalla pianura e si arrampicano verso l’Appennino, dove la strada smette di correre e comincia a respirare. Una curva secca, che porta al Poggio, un agriturismo dove si vive con la terra e non contro di lei. Qui non ci sono boschi dipinti per Instagram, né manifesti che promettono esperienze immersive. C’è terra vera, lavoro ostinato e quel ritmo agricolo che non si piega alle mode. C’è una sincerità che non chiede permesso e non cerca applausi, perché la verità, in campagna, non ha bisogno di pubblico.

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Si coltiva come si coltivava una volta: schiena piegata, attesa, silenzi che riempiono più delle parole. I vini sono naturali, pure troppo. Non addomesticati. Fermentazioni spontanee, volatili, acetiche, macerazioni lunghe, bottiglie che sembrano personaggi di un dramma rustico: intensi, irregolari, liberi fino quasi all’eccesso. A volte pare di vivere Aspettando Godot: li guardi, li ascolti, e non sei certo di quando si compiranno. Forse domani, forse mai, forse proprio ora se li prendi senza volerli comprendere a tutti i costi. Sono vini che non ti vengono incontro. Semmai ti attendono, e decidono loro se valga la pena aprirsi.

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Il bello — o l’incubo, dipende da chi sei — è che non fanno nulla per ingentilirsi. Niente trucco, niente dolcezza di consolazione. Hanno quella torbidità sincera che spaventa chi beve etichette più che vino. Qui il bicchiere lo guardi e capisci subito se sei nel posto giusto: se vuoi pulizia chirurgica, puoi andare altrove. Se vuoi vita, anche quando punge, accomodati.

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La cucina

La cucina segue lo stesso istinto: qui il cibo non è progettato, è vissuto. La brigata si muove come una famiglia che ha imparato il rispetto attraverso le mani, non le regole. Si divertono davvero: si punzecchiano, ridono, impastano. Cantano canzoni di Natale anche ad agosto, con il caldo che esce dal forno e la farina sospesa nell’aria come neve che si ostina a non sciogliersi. E mentre canticchiano Tu scendi dalle stelle, il mattarello picchia sul tavolo, la pasta tira, la cucina vibra. Non è folklore: è una serenità conquistata, fatta di fiducia e complicità.

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E poi c’è la pasta fresca. Tortelli che sono un gesto d’altri tempi: le erbette per il ripieno vengono ancora tagliate al coltello, una ad una. Non c’è cutter, non c’è pastone anonimo da laboratorio; c’è fibra, umidità, fragranza vegetale vera. È rarissimo, quasi un atto di testardaggine culturale. È un modo per dire: noi non abbiamo fretta, siete voi che correte. Gli anolini, invece, sono parenti stretti del vino: ruvidi, intensi, a tratti scorbutici. Hanno una vena di sapore pungente che non chiede permesso e arriva diretta, come uno schiaffo affettuoso della nonna contadina. È cucina che non ti corteggia, ti sfida — e poi ti abbraccia quando capisci il linguaggio.

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Gli antipasti sono un piccolo manifesto agricolo. Tanta componente vegetale, mai ornamentale: foglie amare, erbe spontanee, ortaggi trattati come protagonisti, non contorno. Non la finta natura del ristorante che arrostisce una zucchina e la chiama campagna: qui le verdure sanno di clorofilla, linfa, resina, sole. Una complessità viva, stimolante, che ti fa pensare al campo, alla stagione, all’aria. Un esercizio sensoriale che non vuole stupire: vuole farti ricordare da dove viene il cibo.

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E poi c’è la frittatina delle stagioni. Piccola, umile, quasi timida a prima vista. Ma è un rito. Ogni stagione porta la sua: in primavera è verde tenero di ortiche e piselli; in estate profuma di zucchine, basilico e fiori di campo; in autunno è carica di zucca, cipolla e rosmarino; in inverno si stringe nella terra, con cavolo nero e erbette resistenti al gelo. È un gesto di cucina contadina che racconta più di mille parole: questo è quello che c’è, questo è quello che la terra dà. Niente scenografie, solo verità nel piatto. Si può ordinare alla carta, certo, ma il percorso degustativo è quasi un segreto condiviso tra chi sa ascoltare — e costa poco, pochissimo rispetto a quanto racconta. È un rituale agricolo più che un menu: una narrazione completa di filiera corta, lavoro quotidiano, consapevolezza. Non lusso, non posa: compiutezza. Ogni ingrediente ha un volto, un campo, un perché. E tu lo senti, davvero.

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Sui salumi, permettetemi una nota personale: sono buoni, sinceri, fatti con cura. Ma con tutto questo livello, questa verità così alta nel piatto, forse proprio lì ci sarebbe spazio per una ricerca ancora più profonda, una spinta ulteriore. Un salto che li porterebbe allo stesso livello vertiginoso della pasta e delle verdure. Lo dico con affetto, non con arroganza: qui tutto vola alto, e sarebbe bello vedere anche i salumi raggiungere le stesse alture. Ci sono momenti, tra un piatto e l’altro, in cui la porta della cucina si apre e senti un pezzo di dialetto, una risata, il rumore delle padelle. Una pentola borbotta, qualcuno sbatte la tovaglia fuori, un cane sonnecchia sulla soglia, aspettando che cada qualcosa. Il romanticismo non è cercato, è inevitabile. Il pane è pane, non interpretazione estetica: crosta che suona, mollica che tiene. Il brodo profuma di ossa vere e pazienza, la carne non si scioglie da sola — serve coltello e volontà. E tutto questo non nasce per colpire: nasce per nutrire. E nutrire, qui, è un verbo morale prima ancora che gastronomico.

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Poi arriva l’estate. Le cicale iniziano prima della cucina, la luce morde e accarezza, e i tavoli si apparecchiano sul terrazzo di fuori. Ferro che scricchiola, tovaglie che tremano nel vento, bicchieri che brillano come piccole lampade di sole. E se ti capita una compagnia di romani ultrasimpatici accanto — il rischio è finire in un film di Ozpetek: Le fate ignoranti, ma coi tortelli fatti a mano e un rifermentato nel bicchiere. Risate piene, confidenze improvvise, umanità larga e felice. Non si costruisce: succede.

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E quando te ne vai, non farlo subito. Cammina verso la vigna. Il sole scende, la golden hour trasforma tutto in un bagno tiepido d’oro e silenzio. L’aria ti entra nella pelle, ti rimette insieme. Non guardi il telefono, non cerchi parole. Sei qui. Intero. Vivo. E mentre la luce si posa lenta sulle foglie e sulla terra, ringrazi Dio che posti così esistono ancora — e che ti è capitato di passarci proprio oggi, proprio in quell’ora in cui il mondo smette di pretendere e si lascia semplicemente guardare. Quando esci, con il sole che arrossa le colline e la brezza che porta odore di fieno, senti addosso qualcosa di diverso. Non la leggerezza patinata dei posti da rivista, ma la solidità di un gesto agricolo che non si giustifica e non si trucca. Un luogo dove il vino non indossa l’abito buono, e la cucina non si mette il rossetto. Dove tutto è vivo, imperfetto, e per questo necessario. In un mondo che leviga, qui si graffia. E ringrazi Dio che lo fanno.

Contatti

Località Poggio Superiore di Statto 6, 29020 Travo PC

t. 334 154 4810

andreacervini.ilpoggio@gmail.com

Sito web

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