Ristoranti di tendenza Guida Michelin

Al Madrigale, 1 Stella e premio apertura dell’anno in 8 mesi: a Tivoli c’è un gourmet da record

di:
Marco Colognese
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È una storia di successo, quella che ha vissuto e sta vivendo Al Madrigale a Tivoli, nel meraviglioso centro storico della cittadina.

Lo chef e il team

Aperto il 24 gennaio, il ristorante voluto da Andrea La Caita dopo Li Somari, con Gian Marco Bianchi ai fornelli e la supervisione di Daniele Lippi e Benito Cascone (rispettivamente chef e restaurant manager di Acquolina, due stelle Michelin a Roma), è già stato infatti insignito del suo primo macaron. Ed è accaduto a tempo di record, il 19 novembre, con una sorpresa doppia. Solo poco prima di salire sul palco di Parma per vestire la casacca più ambita da ogni chef, Bianchi aveva infatti appena percorso gli stessi gradini per essere nominato con Al Madrigale come rivelazione dell’anno.

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Un riconoscimento pieno, da parte di una guida esigente e mai larga di manica, a quel concetto di ‘nuova cucina rurale’ che rappresenta l’approccio più onesto e veritiero a un territorio ricco di prodotti e un contenuto autentico da narrare attraverso i piatti: “È importante per noi dare un’identità senza che il concetto di cucina rurale sia uno slogan o diventi ghettizzante, ma sia invece uno stimolo per far crescere ancora di più quello che è questa terra”. Quando gli si chiede come abbia vissuto la notizia della scelta della Rossa, Gian Marco, classe 1985 ci racconta: “Diciamo che ho vissuto una settimana un po’ stressante, perché questo riconoscimento è importante. Non parlo per me, non è una cosa personale, questo per fortuna è un lavoro di squadra: non ho mai visto nelle mie esperienze lavorative un cuoco raggiungere gli obiettivi da solo. È impossibile, devi essere coadiuvato da gente che ha la tua stessa passione. Non parlo tanto delle idee creative, quelle possono anche essere solo dello chef, però poi alla fine devi avere persone che ti danno una mano a metterle nel piatto in modo coerente”.

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Gian Marco Bianchi ha un percorso professionale atipico rispetto a quello di molti suoi colleghi. Frequenta infatti il liceo scientifico e poi si iscrive a giurisprudenza, per rendersi conto dopo un paio d’anni che quella non sarebbe stata la sua strada: “La mia famiglia proveniva da tutt’altre situazioni lavorative, ho dato qualche esame, anche con dei buoni risultati; però non credo di essere una persona adatta per la parte teorica, piuttosto per la parte pratica, per l’utilizzo delle mani, per manipolare qualcosa che poi mi dà il risultato visivo della soddisfazione”. Bianchi perde il padre in un incidente a 17 anni: “Giocavo a calcio, avevo anche questa passione che poi poteva diventare una professione perché ero abbastanza bravo. Dopo che è successo, ho smesso per qualche anno, ho ripreso ma non avevo più quella voglia. Oggi mi manca molto lo spogliatoio, mi manca quell’ambiente conviviale e goliardico”.

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Se ci pensa, è facile associare l’idea di squadra a quella di brigata. Gian Marco viveva in campagna, spesso doveva fermarsi dalla nonna a mangiare dopo la scuola: Lei non era questa grande cuoca, e spesso e volentieri io avevo voglia di qualcosa di diverso, quindi mi facevo questi due chilometri a piedi e tornavo a casa per prepararmi qualcosa. E così invita un amico, invitane un altro, cucinavo queste caponate che non so come mi venivano e loro mi continuavano a dire ‘ammazza che buono’! Mi davano una sorta di motivazione, il motivo per coltivare questa passione”.A 25 anni Gian Marco giocava ancora a calcio e allenava i bambini: “Qualcosa riuscivo a guadagnare, però ormai non avevo più grandi possibilità nello sport. Non avevo pressioni da mia madre per andare a lavorare, né riuscivo a trovare una strada, quindi ho scelto di provare a capire se la passione per la cucina avrebbe potuto trasformarsi un lavoro serio”. Ecco che la prima esperienza la fa in locali “da battaglia, per capire i ritmi, gli orari, tutto quello che c’era intorno al lavoro in cucina. Perché io neanche sapevo cosa fosse la guida Michelin. Ero un vero neofita, non mi ci sono affacciato per quello, né perché vedevo Masterchef, mi piaceva cucinare, ma non sapevo se potevo esserne capace”. La cucina ‘da battaglia’ rappresenta comunque una folgorazione: “Mi piaceva l’adrenalina del servizio”.

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Da lì in poi inizia a fare esperienza in un locale che aveva la consulenza di Anthony Genovese a Roma, in zona Ostiense: “Lì ho visto la prima cucina, diciamo fine dining, dove c’era la ricerca della lavorazione, del prodotto, anche della stessa linea di stoccaggio, un ristorante diverso rispetto a quello che avevo fatto prima”. Passa quindi al Convivio Troiani: Entrai in quella che poi è stata l’esperienza più importante secondo me perché io mi sento un figlio di Angelo Troiani, perché ancora adesso ragiono come lui per tante cose, come ad esempio l’attenzione a quello che è lo spreco, la gestione economica del ristorante”. Ovvero quella che dovrebbe essere la vera sostenibilità. “Noi oggi parliamo di certe cose che Angelo già faceva 15 anni fa.” Da Troiani si sposta ad Acquolina, quando Giulio Terrinoni era in uscita e serviva gente pronta. Ai secondi impara a smontare mezzene, a lavorare sui tagli: “Diventavi un macellaio, un lavoro che non tutti fanno. Era anche uno stimolo mentale perché dovevamo realizzare piatti in cui si utilizzasse tutta la bestia. Daniele (Lippi) era già in cucina, per questo io oggi ho un rapporto così stretto con lui, nato tanti anni fa ed è anche un rapporto di amicizia, di stima, di rispetto. Secondo me Daniele è uno tra i più forti che ci sono in Italia”.

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Bianchi è uno che si muove per apprendere, così lo vediamo al Maaemo a Oslo:La prima esperienza in una grande brigata, molto bella, anche se posti come questi sono forse troppo settoriali. Ti danno delle grandi idee, la possibilità di capire tante metodologie di lavoro, lavorazioni del prodotto, accostamenti particolari, tanti stimoli mentali, ma prima di andarci devi avere le basi, altrimenti diventi il ‘cuochetto’ con le pinzette; poi ti dicono ‘fammi il pollo alla cacciatora’ e tu non sai come si fa. Devi saper fare entrambe le cose”. Dalla Norvegia lo troviamo in Val Badia, prima con Nicola Laera alla Stua de Michil e poi con Matteo Metullio a La Siriola, fino alla chiusura del ristorante. Da lì va oltreoceano, da Alinea a Chicago e Eleven Madison Park a New York. Di ritorno in Europa passa da Yannick Alléno a Parigi e poi da Andreas Caminada a Schloss Schauenstein in Svizzera: “La brigata era molto piccola, con un ambiente veramente sano, un gruppo forte, di gente che lavorava molto bene”.

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Un paio di mesi alla corte di Norbert Niederkofler, quindi un ulteriore passaggio da Acquolina da sous chef e Bianchi è pronto per spiccare il volo a Tivoli: “Credo che Daniele abbia sempre capito che io potevo raggiungere gli obiettivi da solo, quindi mi ha sempre lasciato libero di andare, vedere. Non è facile trovare progetti validi, porte in faccia ne ho prese tante, comprese promesse che poi la gente non ha mai mantenuto. Quando si è presentata la possibilità di fare questo discorso con Andrea La Caita e la famiglia Primerano ci ho pensato un po’; sono del territorio, sto a 20 km da Tivoli e l’idea di cucina era la mia, mi veniva molto facile pensare le cose. Così mi sono detto ‘forse è la cosa giusta’ e quindi è iniziato questo percorso”.

Il ristorante e i piatti

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L’ambiente che ospita Al Madrigale è suggestivo, giocato su una penombra affascinante, tra arredi di recupero in ferro e marmo e opere d’arte contemporanea. Ci si accomoda a tavola una volta raggiunto il secondo piano con una scala a chiocciola, dopo aver consumato all’ingresso qualche eccellente appetizer, una sosta al pass della cucina a vista e si arriva in una sala scenografica, con pochi tavoli ben distribuiti e una scultura centrale. Il responsabile di sala è Danilo Alessi; a prendersi cura di una carta dei vini originale è invece Lorenzo Genga, il quale ci racconta: “La nostra selezione è ancora in fase evolutiva; l’obiettivo che ci siamo posti è di mettere in risalto le regioni legate alla transumanza, soprattutto quelle dell’Italia centrale, partendo dalla Toscana per arrivare alla Lucania, con vignaioli che producono con un approccio artigianale. Privilegiamo realtà piccole con una forte identità, che parlino della propria terra”.

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Il pairing, proposto sia con i piatti della carta sia con i due menu degustazione Misera/mente e Migra/azione, è decisamente originale e riuscito. ‘Nuova cucina rurale’ è una definizione che calza a pennello con uno stile in grado di delineare con precisione l’identità gastronomica di questo luogo del gusto e al suo legame con il concetto di transumanza di greggi e mandrie. Siamo Al Madrigale e non ci sono possibilità di confondersi: la personalità è netta ed evidente, a partire dalla ventricina con focaccia alla brace, una leccornia vera. Questo salume tipico abruzzese, solitamente a base di carne di maiale, viene proposto con carne di pecora e servito con una focaccia al padellino di grani antichi, lievito madre e 24 ore di lievitazione, rigenerata a vapore e poi finita al barbecue.

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al madrigale ventricina pecora
 

Nel lardo di storione il pesce viene lavorato fino a ottenere la stessa consistenza dell’omologo grasso di Colonnata, prima marinato in un sale bilanciato per 24 ore poi panato in una concia delle stesse spezie. Viene servito con more di rovo in soluzione agrodolce e bacche di sambuco sottoaceto. A tavola viene finito con una salsa di pane di segale ammuffito: il pane di segale raffermo viene inoculato con ‘Aspergillus oryzae’, lasciato lattofermentare per tre giorni. Irresistibilmente saporita la salsa che ne deriva, con note umami particolarmente intense: l’idea è quella del recupero totale del pane. Il nome dell’‘uovo in Purgatorio’ affonda le radici nel cattolicesimo popolare ed è una sorta di metafora, con l’albume a rappresentare le anime e il tuorlo a simboleggiare le fiamme della purificazione nel Purgatorio della *Divina Commedia*, in cui le anime attendono la salvezza.

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al madrigale uovo
 

Conosciuto anche come uovo alla contadina, spesso si preparava per recuperare il sugo avanzato da altri piatti: il “ragù della domenica” o il sugo della pasta e le uova venivano cotte direttamente nel sugo, senza bisogno di altri condimenti. Qui viene proposto con un sugo di bacche di rosa canina, molto presenti lungo i passi dei tratturi: dolci e acide, ricordano quello del pomodoro; il tutto è finito con una grattata di ricotta di pecora stagionata. La transumanza terrestre viene fatta incontrare con quella marina in ‘pecora e ostrica’: non è così noto che le ostriche siano soggette a percorsi di transumanza; qui vengono usate quelle del delta del Po. Il battuto di pecora è condito con scalogno, senape in grani, pepe nero e colatura di alici e il piatto viene completato con dell’uva fragola ghiacciata e delle erbe spontanee, con un risultato di meravigliosa armonia e dolcezza iodata.

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Squisita, per consistenze e sapore, animella e lupini: la prima viene fritta nel burro chiarificato e poi terminata alla brace; viene servita con fiori di sambuco sottaceto e finocchio di mare (spaccasasso). A tavola arriva una salsa a base di lupini affumicati e al naturale. Il ‘raviolo del pastore’ rappresenta in chiave pastorale il classico ricotta e spinaci. Si utilizzano ricotta di pecora ed erbe di campo, raccolte dalla brigata: per la loro amarezza e la nota erbacea ricordano lo spinacio. Il piatto viene chiuso con fondo di pecora e carne secca ottenuta dalla stagionatura di un cuore di manzo. Come racconta Bianchi: “La carne secca era una delle poche pietanze che, vista la sua facile conservazione, il pastore poteva portare durante la transumanza”.

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al madrigale animella e lupini
 
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Tutto questo solo per raccontare alcuni dei piatti, perché qui Al Madrigale la sintesi di gusto e tecnica rappresenta un esempio perfetto di sincronia gastronomica al passo con i tempi. Un luogo paradigmatico.

Contatti

Al Madrigale

Via Ponte Gregoriano, 1, 00019 Tivoli RM

Telefono: 0774 011261

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