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Nicolás Solanilla da Ana: lo chef One To Watch che dice no a dress code e formalità

di:
Elisa Erriu
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copertina ana

“Crediamo che la cucina raffinata latinoamericana debba essere diversa: più calda, libera da rigidi protocolli e più personale”. Così, lo chef di Ana ha eliminato dress code e formalismi eccessivi, proponendo un nuovo modello di ospitalità vincente.

Lo chef

Guatemala City non è un luogo che si limita a seguire le mode: le reinventa, spesso senza chiedere permesso. E Ana, il ristorante guidato dal colombiano Nicolás Solanilla, è la prova più luminosa che la nuova cucina latinoamericana non vuole più rassomigliare a quella europea, ma parlarne la lingua per riscriverne la grammatica. È un luogo che profuma di terra bagnata e di eredità affettive, di cucina che nasce dal ricordo ma si spinge verso l’ignoto. E, come il nome suggerisce, è una dedica: Ana era la nonna del cuoco, la donna che radunava la famiglia attorno a un tavolo, che insegnava che cucinare è un gesto prima emotivo che tecnico. “Questo progetto è nato come un omaggio a mia nonna,” racconta Solanilla, vincitore del One To Watch Award 2025 dei Latin America’s 50 Best Restaurants, al noto network. “Lei è stata la mia porta d’ingresso al mondo della cucina, quella che sapeva trasformare un pranzo in un atto di unione. Ho voluto creare un luogo che avesse un’anima, che evocasse memoria ed emozione.” È da questo intento semplice e radicale che nasce un ristorante capace di spostare il baricentro del fine dining dell’America Latina: un’esperienza colta, ma mai rigida; tecnica, ma sempre calda. Ana è un manifesto di libertà gastronomica in un continente che per troppo tempo ha inseguito modelli esterni.

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L’idea ha preso forma più di cinque anni fa come pop-up itinerante. Poi, lentamente, è diventata un indirizzo vero, un punto di riferimento per chi cerca una cucina che non teme di contaminarsi. Solanilla, originario di Bogotá, ha cominciato a cucinare a soli diciassette anni in Brasile, organizzando piccoli eventi privati a Brasilia mentre terminava la scuola. Tornato in Colombia, si iscrive a un corso di gastronomia e lavora in uno dei ristoranti più importanti del Paese: “È lì che mi sono innamorato del mestiere e del ritmo di una cucina – quella miscela di caos e disciplina che diventa stile di vita.” A venticinque anni, il desiderio di scoperta lo spinge in Guatemala. “Sono arrivato con lo sguardo del turista, pieno di curiosità,” ricorda. “Ho iniziato a esplorare i recados, i tamales, le tortillas locali, che sono completamente diverse da quelle di altri Paesi.” Da quell’approccio esterno nasce la chiave del progetto Ana: la capacità di guardare la tradizione con occhi nuovi, di disarticolare il codice della cucina guatemalteca e ricomporlo con una sensibilità altra, non filtrata dal ricordo collettivo.

Nicolas Solanilla ph Johan Santiago
Johan Santiago

Il fatto di non avere un legame diretto con questi sapori mi permette di avvicinarmi agli ingredienti in modo libero,” spiega. “Un locale associa ogni ingrediente a una ricetta o a un momento preciso della vita. Io no. Io posso partire da zero, esplorare, stupirmi. Questo ci consente di costruire una cucina diversa, in cui anche chi vive qui può riscoprire la bellezza dei prodotti che conosceva da sempre.” Eppure, per quanto lontano possa sembrare, l’eco della Colombia continua a vibrare nei piatti. “Alcuni sapori o tecniche della mia infanzia tornano inevitabilmente. In fondo, la memoria non si dimentica: si trasforma.” La sua visione gastronomica ha una dimensione quasi antropologica. “Credo che il legame più profondo che l’uomo abbia con il pianeta passi attraverso il cibo,” dice. “È un linguaggio che non distingue classi sociali o religioni. Se impariamo a capire come un popolo mangia, impariamo anche come vive, pensa e sogna.” È una filosofia che a Guatemala City assume una potenza particolare: un territorio ancora attraversato da forti differenze sociali, ma anche da una biodiversità straordinaria, dove il cibo diventa ponte tra mondi lontani.

Nicolas Solanilla piatto 1
 

Il menu di Ana cambia con le stagioni e con l’umore della terra. I piatti nascono da un equilibrio tra tecnica e istinto, tra tradizione e invenzione. Solanilla ama confrontarsi con i limiti imposti dal territorio e dal clima: “Lavorare con ciò che la stagione offre è una sfida meravigliosa. Ti obbliga a spingere la creatività, a cercare soluzioni dentro un perimetro reale.” Ogni piatto è costruito con la logica del rispetto. “Cerchiamo di usare ogni parte dell’ingrediente per ridurre al minimo gli scarti,” racconta. “Cucinare bene significa anche cucinare in modo responsabile.” Dietro a questa filosofia si nasconde un’idea di sostenibilità concreta, non ornamentale: i prodotti provengono da piccoli contadini, il compost è reintegrato nel suolo, le tecniche antiche vengono reinterpretate per valorizzare la biodiversità locale. Tra le ricerche più curiose, quella dedicata al loroco, una vite rampicante i cui fiori commestibili, racconta lo chef, “profumano di un incrocio tra tartufo nero e asparago”. È la metafora perfetta del suo lavoro: partire da un ingrediente sconosciuto ai più e dargli un posto d’onore, costruendo attorno a esso una nuova percezione di lusso gastronomico. Ma il piatto che più di ogni altro rappresenta Ana è l’heirloom tomato, il pomodoro ancestrale che Solanilla descrive come “il nostro punto di partenza e di ritorno”. Proviene da un piccolo produttore di Antigua Guatemala, che lascia maturare i frutti sulla pianta fino al momento perfetto. In cucina vengono conditi con sale nero della regione di Quiché – prodotto da uno degli ultimi artigiani del Paese secondo una tecnica preispanica – e accompagnati da lamponi, uva verde, origano fresco dell’orto e un gazpacho affumicato preparato con gli scarti del pomodoro stesso. Il risultato è un piatto che sa di terra, memoria e futuro, un gesto di rispetto verso l’ingrediente e di ribellione verso la logica dell’eccesso. “Con questo piatto abbiamo capito cosa voleva essere Ana,” dice lo chef. “Un luogo in cui la semplicità diventa emozione.”

Ana
 

A tavola l’esperienza è sofisticata, ma libera. “Credo che il fine dining latino debba essere diverso,” afferma lo chef. “Più caldo, più spontaneo, più personale. Non vogliamo un ristorante che imponga un protocollo, ma un luogo dove le persone mangiano bene, si sentono bene e condividono qualcosa di autentico.” Il servizio è preciso, ma non formale; la musica accompagna l’energia della sala, cambia tono con l’orario e con l’umore. Non c’è dress code, ma c’è un senso diffuso di cura, quella gentilezza discreta che fa la differenza tra l’eleganza e la rigidità. Questa filosofia di “ospitalità fluida” si riflette anche nei progetti paralleli dello chef: Niquito, bistrot contemporaneo; Bacán, ristorante casual; e Furia, cocktail bar inaugurato di recente. Tre indirizzi diversi, ma connessi da un filo invisibile: la volontà di rendere l’esperienza gastronomica accessibile, sia economicamente che emotivamente. “Ogni locale dialoga con gli altri,” spiega Solanilla. “Abbiamo voluto vedere fin dove poteva arrivare la nostra idea di cucina: più alta, più semplice, più conviviale. È stato un esperimento entusiasmante.” Dietro la brillantezza del progetto resta una verità semplice: Ana è, prima di tutto, un lavoro di squadra. “Il team è il cuore del ristorante,” dice con fermezza. “Siamo cresciuti insieme, imparando ogni giorno qualcosa di nuovo. Lavorare qui non significa solo cucinare: significa imparare a raccontare un territorio con onestà.”

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