Quando la passione non basta più: il grido d’allarme di David Gallienne sulla salute mentale nella ristorazione.
La notizia
A volte basta un post per far emergere ciò che tanti vivono in silenzio. È quanto accaduto con David Gallienne, chef stellato francese, che pochi giorni fa — dal letto d’ospedale — ha pubblicato un messaggio semplice e diretto sui social: un grido d’allarme sulla salute mentale nel mondo della ristorazione. Niente retorica, nessuna messa in scena: solo la voce di un uomo stanco che ha trovato il coraggio di dire “stop”, con un'eco virale pure sui maggiori network d'Oltralpe come Food&Sens.

In poche ore, le sue parole hanno fatto il giro della Francia, raccogliendo oltre duemila messaggi di sostegno. Ma, soprattutto, hanno aperto una breccia in un muro di silenzio troppo spesso dato per scontato.
L’altra faccia della cucina: fatica, solitudine e resistenza
Dietro il luccichio delle stelle Michelin, dietro le cucine che non si fermano mai, si nasconde un mondo fatto di ritmi estremi, pressioni costanti e responsabilità senza tregua. Gallienne, nel suo post, ha raccontato l’esaurimento fisico e mentale che lo ha condotto al ricovero: il peso delle crisi economiche, la mancanza di sostegno strutturale per i ristoratori indipendenti e quella solitudine professionale che, spesso, si trasforma in un abisso silenzioso. Le risposte ricevute — da chef, artigiani, commercianti, operatori sanitari — hanno rivelato una realtà condivisa: carico mentale costante, impossibilità di rallentare, tensioni finanziarie e familiari, fino al crollo, quando ormai è troppo tardi.


Una fatica che non è solo individuale
Il messaggio di Gallienne non parla solo di sé, ma di un’intera generazione di professionisti che reggono le proprie attività con le unghie e con i denti. È una fatica sistemica, una solitudine strutturale. La passione — un tempo forza propulsiva — non basta più a mascherare il dolore. La resilienza è diventata un obbligo sociale, quasi una forma di colpa per chi non riesce più a sostenere il ritmo. E così molti, per paura o vergogna, tacciono, mentre dentro si spengono lentamente.
Rompere il silenzio, cambiare il sistema
Rompendo quel silenzio, David Gallienne ha dato voce a un disagio collettivo.
Non si tratta di commiserazione, ma di consapevolezza: riconoscere che dietro l’idea romantica della cucina come “vocazione” si cela spesso una mancanza di equilibrio profondo. La sua testimonianza ha permesso a tanti colleghi di sentirsi meno soli, di ammettere la fragilità, di riconoscere che la salute mentale è parte integrante del lavoro, tanto quanto la tecnica o la creatività.

E soprattutto, ha aperto un dibattito pubblico che la ristorazione non può più permettersi di ignorare. Un punto di svolta necessario Quando l’ospedale diventa l’unico luogo in cui si può dire “basta”, significa che qualcosa si è spezzato nel sistema. Il caso Gallienne è diventato un catalizzatore di coscienza collettiva, spingendo molti a interrogarsi non solo sulle condizioni di lavoro, ma anche su una cultura professionale che esalta il sacrificio fino all’esaurimento. È tempo di ripensare la sostenibilità del mestiere di cuoco, non solo in termini ambientali ma umani: il benessere psicologico, l’equilibrio tra vita e lavoro, la possibilità di fermarsi senza sentirsi colpevoli. Gallienne ha avuto la forza di parlare. Ora spetta al settore — e a tutti noi — trasformare quella voce in un punto di svolta. Perché la passione, da sola, non deve più essere sinonimo di sacrificio. E perché la cucina torni a essere ciò che dovrebbe sempre essere: un luogo di vita, non di logoramento.