Un’amicizia nata in sella a una bici diventa una cena a quattro mani che solleva temi importanti: Ferdy Wild e L’Alchimia si incontrano per raccontare, attraverso piatti e parole, due visioni diverse ma affini della ristorazione italiana contemporanea.
Dalla Val Brembana a Milano, una serata che ha unito sensibilità e territori diversi. Nicolò Quarteroni, Direttore di Ferdy Wild, riflette su cucina, sostenibilità e verità del mestiere. Un tavolo condiviso, due cucine che si riconoscono. Da una parte la natura verticale e concreta di Ferdy Wild, agriturismo di montagna immerso nelle Orobie; dall’altra l’eleganza urbana e il rigore tecnico de L’Alchimia, ristorante milanese guidato da Alberto Tasinato.


L’occasione: una cena a quattro mani che nasce da un legame personale, prima ancora che professionale. A parlare è Nicolò Quarteroni, Direttore di Ferdy Wild, voce e anima del progetto che unisce ospitalità, agricoltura e cucina in Val Brembana.
Da dove nasce questa collaborazione?
«Questa cena non nasce da un progetto di lavoro, ma da un’amicizia nata in sella a una bici. Con Alberto Tasinato condividiamo la passione per il vino, per la ristorazione e per un certo modo di intendere l’ospitalità. Lui è, a nostro avviso, uno dei grandi interpreti della sala italiana. Già l’anno scorso avevamo cucinato insieme a casa nostra, al Ferdy, per celebrare l’anniversario di Alchimia: da lì è nata la voglia di ritrovarci. Nonostante noi viviamo lontani dalla città, ci piace costruire ponti tra mondi diversi, quando dietro c’è affinità umana e rispetto reciproco».

Cosa avete scoperto di inatteso l’uno dell’altro?
«Abbiamo scoperto che, al di là dei luoghi, ciò che tiene insieme due cucine è la sensibilità. L’Alchimia è un esempio di quanto l’ospitalità possa essere elegante, attenta, centrata sulle persone. Spesso si parla solo della cucina, ma la sala è il cuore che dà vita a tutto. Ci accomuna la stessa volontà di raccontare il territorio attraverso chi lo abita, di dare valore al lavoro delle mani e delle relazioni».

Visione della cucina: cosa significa oggi fare cucina di montagna e cosa invece vuol dire interpretare una cucina urbana?
«Per noi la cucina di montagna non è una categoria, ma un modo di vivere. È una cucina che parte dal rispetto: dell’animale, della terra, delle stagioni. È sostenibile non perché segue un trend, ma perché nasce da una necessità quotidiana — quella di far durare le risorse, di non sprecare nulla, di restituire valore a ciò che si ha. La città invece, come Milano, ha la forza di interpretare e far dialogare tutte queste storie, di aprirle al mondo. È bello incontrarsi su questo confine: noi portiamo la verticalità della montagna, loro la profondità della visione urbana».

Il tema della sostenibilità è centrale in entrambi i vostri percorsi. Come dialogano queste visioni?
«Crediamo che la sostenibilità non abbia un luogo, ma un modo. Può nascere in alta quota o in un contesto urbano, se l’approccio è consapevole.
Nel nostro caso significa valorizzare integralmente l’animale, ridurre al minimo l’uso della carne, sostenere un’agricoltura che si prenda cura della montagna e delle persone che la vivono. Ad Alchimia la sostenibilità si traduce in gestione, formazione, equilibrio tra qualità e innovazione. Sono due mondi diversi, ma parlano la stessa lingua: quella del rispetto».

Quale piatto della serata vi rappresenta meglio?
«Sicuramente La mé àca, che in dialetto significa “la mia vacca”. È il piatto che racconta meglio la nostra idea di cucina: un riso cotto in una riduzione di latte e fieno, servito con una salsa rossa al romice alpino — un’erba spontanea che cresce proprio dove dormono le vacche — e completato con corteccia d’abete, cacao e fondo bruno.
È un piatto che nasce dal legame profondo tra la montagna e chi la vive ogni giorno, un dialogo tra natura, memoria e artigianato. Anche il piatto stesso su cui viene servito è un simbolo: è stato realizzato da un artista bergamasco e rappresenta una montagna, a ricordare la centralità dell’animale e il senso del nostro lavoro quotidiano».

Guardando oltre questa cena: la ristorazione italiana ha bisogno di più contaminazioni?
«Crediamo che oggi la ristorazione debba essere libera. È giusto che esistano confini identitari, ma non devono diventare muri. L’importante è che dietro ci sia verità: sapere chi sei, cosa rappresenti e perché lo fai.
Ogni ristorante dovrebbe essere portatore di cultura, benessere e valore, non solo per i propri ospiti, ma anche per il team e per tutti i fornitori coinvolti. Quando c’è questa consapevolezza, le contaminazioni diventano ricchezza, non dispersione».
Più che una cena, un incontro tra visioni affini. Nel dialogo tra montagna e città emerge un’idea di cucina che non rincorre le tendenze, ma si fonda su rispetto, autenticità e relazione.
Un racconto di verità, dove l’ospitalità diventa cultura e il piatto, semplicemente, un modo per condividere chi si è.