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Francia, neostellato contro il sistema: "Qui se un ingrediente non è bello si butta”

di:
Elisa Erriu
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copertina adrien cachot

“In Francia spesso scartiamo un ingrediente se non è bello. In Asia, invece, trovano il modo di farlo risaltare. Non comprendiamo appieno quanto siano essenziali il cibo, il vino e la gastronomia. C'è ancora molto da fare, soprattutto per quanto riguarda la qualità”.

Foto di copertina: Marie Echtegoyen

La notizia

Le cucine parigine non mancano di stelle, ma quella di Adrien Cachot brilla con un bagliore singolare: non riflette soltanto la precisione tecnica di un grande chef, ma anche l’anima inquieta di un uomo che ha trasformato la propria fragilità in forza creativa. A 35 anni, dopo l’exploit televisivo con Top Chef France e anni di formazione sotto guide rigorose come Nicolas Magie e Christian Etchebest, Cachot ha trovato nel suo ristorante Vaisseau non solo un palcoscenico, ma un rifugio in cui dare forma a una cucina che parla in metafore, intreccia emozioni e racconta una vita passata a cercare un linguaggio personale attraverso i sapori.

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Adrien Cachot non ha avuto un percorso lineare. Da adolescente, la scuola lo respingeva, ma la cucina lo accoglieva. È stato Nicolas Magie a tendergli la mano, offrendogli a soli 14 anni un apprendistato al ristorante stellato La Cape, vicino a Bordeaux. Quel gesto non solo gli diede un mestiere, ma soprattutto una direzione. Seguendo Magie, passò anche per l’iconico Saint-James di Bouliac, un gioiello architettonico firmato Jean Nouvel, prima di approdare a Parigi, dove incontrò Christian Etchebest, padre della bistronomia contemporanea. Con loro Cachot imparò che la disciplina è il respiro segreto della libertà creativa. Il ristorante che oggi porta la sua firma si trova nell’undicesimo arrondissement e si ispira all’opera del pittore Pierre Soulages, maestro del nero e della luce. Qui tutto vibra di contrasti: i toni scuri degli interni, i riflessi che li attraversano, le composizioni che sembrano quadri viventi. Non è un caso che la sua cucina giochi con abbinamenti arditi, capaci di sorprendere e commuovere allo stesso tempo: pesce di profondità accostato a trippa con sabayon di vin jaune, carpaccio di piede di maiale intrecciato a percebes, “insalate liquide” che mettono in crisi la memoria del gusto tradizionale.

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Joann Pai

Chi conosce Adrien sa che pensa e parla per immagini. Non sorprende che, se dovesse definirsi con un utensile, sceglierebbe un coltello: «mi ha salvato la vita», dice alla Michelin, raccontando quanto sia indispensabile, affilato, fedele. Se fosse un animale, sarebbe un lupo; una spezia, il peperoncino, amato per la sua capacità di far riflettere e di scuotere i sensi. Se fosse un piatto, sceglierebbe la fideuà, ricordo d’infanzia che lo lega alle estati catalane in famiglia. Ogni metafora diventa una finestra sulla sua identità, oscillante tra radici francesi e fascinazioni asiatiche, tra ricordi familiari e viaggi che lo hanno formato. Il percorso di Cachot non è solo francese. Le sue scelte rivelano una sensibilità nutrita dall’incontro con culture e ingredienti lontani. Ha vissuto viaggi in Asia che hanno segnato il suo modo di pensare la materia prima: Tokyo, ad esempio, gli ha insegnato che non esistono ingredienti umili, ma solo ingredienti amati. “A Tokyo si mangia tutto il giorno per meno di un euro. Ho pranzato in un ristorante stellato Michelin che cucina solo sardine: 8 euro per un menu completo. Cucinano tutto con amore, anche gli ingredienti più umili. In Francia, spesso scartiamo un ingrediente se non è bello. Lì, trovano il modo di farlo risaltare. Non comprendiamo ancora appieno quanto siano essenziali il cibo, il vino e la gastronomia. C'è ancora molto da fare, soprattutto per quanto riguarda la qualità. Ne parlavo di recente con Alain Ducasse.”

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Oggi, a Vaisseau, racconta il sud-ovest francese con il pesce di Saint-Jean-de-Luz, l’anatra e il pollo della sua terra, senza rinunciare a spezie e suggestioni globali. In questo equilibrio tra intimità e apertura si gioca l’essenza della sua cucina. Adrien lo ripete spesso: il suo obiettivo non è spiegare, ma far provare qualcosa. Anche il più complesso dei piatti nasce dalla ricerca di una sensazione precisa. «C’è tenerezza in tutto ciò che facciamo», dice, rivendicando l’importanza di un gesto delicato, di una cottura calibrata, di un condimento che non aggredisce ma accompagna. La tecnica diventa invisibile, a servizio dell’emozione, mentre i contrasti restano il suo terreno prediletto: morbidezza e croccantezza, dolcezza e acidità, profondità e leggerezza. Nella sua traiettoria emergono figure decisive: Nicolas Magie, il primo maestro; Etchebest, che gli ha insegnato a guardare al di fuori delle brigate; Christophe Raoux, conosciuto grazie a Top Chef; e soprattutto Paul Pairet, il visionario di Ultraviolet a Shanghai, che gli ha trasmesso l’idea che la cucina sia anche immersione, esperienza, pensiero radicale. «Pairet mi ha cambiato la vita», ammette Cachot, riconoscendo come ogni incontro abbia aggiunto un tassello alla sua identità.

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Con Vaisseau, Adrien Cachot ha conquistato la sua prima stella Michelin. Ma, come ama sottolineare, non è la gloria a guidarlo, bensì il desiderio di fedeltà verso i suoi clienti. Quelli che tornano, che lo incalzano a riproporre un piatto, che lo criticano e allo stesso tempo lo sostengono. «Sono appassionati, a volte quasi fastidiosi», scherza, ma in realtà sono il suo termometro emotivo. Adrien Cachot oggi è uno chef che vive la sua cucina come un autoritratto: ogni piatto, un pezzo della sua storia; ogni sapore, una ferita trasformata in bellezza. In fondo, ciò che mette in tavola non è mai solo cibo: è la traduzione di una sensibilità che ha trovato finalmente la sua voce.

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